Afghanistan, bisogna ricostruire la speranza

Negli ultimi venti anni in Afghanistan sono stati investiti fondi ingentissimi, eppure sono stati pochi i miglioramenti. Perché? Un commento

La tragedia – non si può chiamarla che così – che si sta consumando in Afghanistan pone alla comunità internazionale domande serie. Sui media esuberano le analisi storiche, politiche e militari degli esperti, ruotando intorno al – contestato o meno – ‘tempismo’ della ritirata statunitense e occidentale e a quello puntuale della presa di potere da parte dei talebani. Vi si mescolano le impressioni della strada che a volte gettano lì sprazzi di buon senso che vengono dal cuore: “Cosa si è fatto in questi 20 anni? Scompariranno le donne? Se c’è chi ha preferito morire attaccandosi al carrello di un aereo in partenza, qual è allora la posta in gioco? Ma da dove le prendono le armi i talebani?”.

Ed ecco qualche pensiero che nasce da un dolore profondo, di quelli che sembrano cancellare dal dizionario la parola speranza. In Pakistan, dove ho vissuto a lungo, ho conosciuto molti amici afghani, accolti nei campi profughi allestiti per loro al tempo del grande esodo degli anni ’80, quando in milioni sono scappati dalla guerra civile. Erano professionisti, insegnanti, professori universitari. Ho riletto le loro lettere, espressione di un dramma collettivo. Come quella di uno studente universitario di quel tempo: “Sto  scrivendo questa e-mail da un paese chiamato Afghanistan, dove la vita non ha alcun significato, dove la guerra non ha mai cessato di distruggere ed uccidere… Qualche volta mi sembra che non ci sia anima dentro il mio corpo. Penso che il modo in cui io sono cresciuto sia il tipico esempio di tutta una generazione, disastri e sofferenze ci hanno reso così: senza speranza e senza anima. Chiunque è venuto nel nostro paese ha portato disastri, ha giocato il suo gioco e se ne è andato”. E la storia si ripete.

L’obiettivo di queste persone non era volare in occidente, ma tornare, appena le condizioni politiche lo avessero permesso, a costruire il proprio paese. “Costruire” era una parola ricorrente. E intanto ‘costruivano’ le scuole sotto gli alberi e, nelle stanze disadorne dei poveri villaggi improvvisati che sono i campi profughi, facevano studiare i loro bambini.

“Costruire”, una parola che compare, come lama tagliente, anche in un passaggio del discorso del presidente Biden del 17 agosto: ”Eravamo lì per combattere il terrorismo, non per costruire una nazione”. Coscienti che non è serio estrapolare una parola dal suo contesto, non posso negare che essa mi sia balzata agli occhi.

Eppure dal 2002 il governo americano ha investito circa 145 bilioni di dollari per la ricostruzione in Afghanistan, in termini di promozione di un buon governo, formazione delle forze di sicurezza afghana per gestire in autonomia la sicurezza del paese, sostenerne lo sviluppo, combattere la corruzione e il traffico di stupefacenti. E per monitorare questo immenso obiettivo ha creato l’ufficio di uno Speciale Ispettore Generale per la Ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR), che si occupasse di fornire una supervisione oggettiva e indipendente su tutti i progetti coinvolti in questo piano generale, a qualunque agenzia appartenessero.

Mi sono chiesta cosa significhi questa contraddizione. Evidentemente c’è ‘costruzione’ e ‘costruzione’. Viene il dubbio che sia il movente a fare la differenza: costruisco per me o costruisco per te? Nodo che anche gli esperti hanno portato al pettine. L’undicesimo rapporto del SIGAR “Cosa occorre imparare: lezioni dai 20 anni di ricostruzione afghana”, raccoglie in 140 pagine un’analisi rispettosa, riconoscente degli ‘spot luminosi’ raggiunti (come la diminuzione della mortalità infantile e l’aumento del tasso di alfabetizzazione), ma estremamente sincera e diretta in ciò che ne ha determinato il fallimento: “È stata data precedenza a ciò che tale ricostruzione avrebbe dovuto essere piuttosto che a ciò che si poteva realisticamente raggiungere”.

E questo perché – spiega il rapporto – non è stato capito il reale contesto afghano. Sono stati applicati metodi sperimentati in altri paesi senza considerare le differenze. A volte le informazioni non erano fruibili per le restrizioni dovute alla sicurezza, altre volte sono state date per buone supposizioni che potevano invece essere facilmente verificate. Mentre i progettisti, per esempio, mettevano a punto le basi per un sistema giudiziario a regola d’arte, ma straniero agli occhi afghani, ignorando la prospettiva dei meccanismi tradizionali, i talebani avevano l’opportunità di esercitare la loro influenza a livello locale.

I cooperanti, nella grande maggioranza, sono persone capaci di ascolto e di integrazione con il contesto, ma purtroppo il ‘sistema’ pecca ancora. Si spende moltissimo per risultati poverissimi.

Ancora il rapporto sostiene che “piuttosto che motivare il governo statunitense a migliorare, la difficoltà di queste missioni sia invece incoraggiare gli addetti a fare passi avanti e preparare qualcosa di completamente nuovo che sia misurato sullo scopo e sia realizzabile”.

“Sotto ogni crisi – ha detto papa Francesco ai membri del Collegio cardinalizio e della curia romana nel 2020– c’è sempre una giusta esigenza di aggiornamento”. Potrà la crisi anche qui, in questo scenario, aprire nuove vie? È un nodo che va affrontato per valutare gli errori del passato, le scelte del presente e le prospettive del futuro, specie ora, in questo tempo tragicamente cambiato. Ci si troverà nuovamente ad avere a che fare con profughi e rifugiati, con sharia e fondamentalismo. Occorre non smettere di farci serie domande sulle responsabilità dell’occidente a tutti i livelli, cominciando da quello storico. E a tutti i livelli, dove possibile, con tutti i mezzi a disposizione, con il sostegno ai singoli, al popolo, alle donne, alle organizzazioni umanitarie, ai governi, ricominciare – e non cessare –  a  costruire speranza.

[1] Discorso ai membri del Collegio cardinalizio e della curia romana, 21 dicembre 2020

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