Affari e ancora affari in guerra

Non c’è solo la questione del gas: i conflitti militari portano immancabilmente con sé i soldi, soldi sporchi di sangue
Vyacheslav Prokofyev, Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP

Nella giornata di giovedì, il presidente turco Erdogan ha incontrato l’omologo russo, Vladimir Putin, ad Astana, capitale del Kazakistan. Si è parlato di pace, di trattative, di canali umanitari, di caschi blu, di tregue? Certamente, ci mancherebbe. Ma si è parlato soprattutto di soldi, di affari, di mammona, per dirla all’evangelica: gas, grano, materie prime, corridoi privilegiati per la tecnologia…. Due uomini politici che possono dirsi due uomini d’affari.

Sappiamo bene come la Russia, pur non essendo crollata come preannunciavano certi governi occidentali, ha grossissime difficoltà e la sua struttura industriale non potrà reggere a lungo nelle attuali condizioni, soprattutto per il più che dannoso embargo dell’alta tecnologia e del lusso, che la produzione interna (o cinese) non potrà sostituire facilmente. Allo stesso tempo, la Russia rischia di essere “comprata” dagli alleati, comunque riluttanti, soprattutto India e Cina. Ma per il momento tiene e per certi versi è riuscita a monetizzare la penuria di gas, manovrando ad arte con Gazprom le tendenze di mercato.

Erdogan non sta peggio della Russia, ma conosce periodicamente gravi crisi dovute alla debolezza della sua moneta; crisi che talvolta sembrano pilotate da Paesi apparentemente alleati nella Nato, per far abbassare la cresta ad Ankara. L’attivismo del presidente turco nell’attuale fase del conflitto ucraino sembra dettato da una parte da un indiscusso protagonismo, ma anche dalla possibilità di guadagni legati alla guerra.

Guerra che sempre offre possibilità di guadagno, rapido e cospicuo, spesso e volentieri illecito. Gli stessi corsi del prezzo del gas lo dimostrano, così come quelli delle più varie materie prime. All’uscita da ogni conflitto, si scopre chi ha fatto fortuna con la destabilizzazione della società provocata dall’emergenza militare. In Libano, o in RDC o in Myanmar, luoghi di guerra e destabilizzazione, gente modesta diventa milionaria in pochi mesi, e viceversa. Ma anche i governanti entrano in questa lotta economica, spesso e volentieri per la conoscenza di fatti economici che solo chi è nell’esecutivo può conoscere. Gli arricchimenti possono essere personali o per lo Stato, ma il più delle volte i soldi finiscono da entrambe le parti, per taciti accordi: lo Stato chiude gli occhi, e il privato sa che non può superare certi limiti.

Certamente Erdogan vede nella crisi ucraina una possibilità di posizionamento favorevole del suo Paese nello scacchiere internazionale: così è accaduto per la questione del grano, ma ora anche per il gas e il petrolio. Ankara sogna di farsi concorrente di Amsterdam nel determinare il prezzo del gas, e in attesa progetta un gasdotto diretto tra Russia e Turchia, in modo da poter poi rivendere il gas agli europei, a prezzo ovviamente maggiorato. E Mosca vede nei turchi una via per non perdere definitivamente la posizione di privilegio che aveva prima della guerra nell’export di gas e altre materie prime verso l’Europa.

Si dice “pescare nel torbido”: è quello che sta avvenendo nei commerci mondiali in stato di guerra, situazione che tende a eliminare quei processi di accountability, cioè di controllo, che le odierne democrazie esigerebbero. Prima terminerà la guerra, e prima si tornerà a transazioni economiche sufficientemente trasparenti.

Nel frattempo dobbiamo sopportare situazioni in cui dei briganti appaiono salvatori della patria, briganti che evadono la legge pretendendo di essere il loro difensore. Anche questa è la guerra. Possibile che non ci si accorga che le armi portano sempre e comunque a calpestare i diritti della persona umana e quelli civili, così come i diritti alla verità e alla libertà? Vedremo chi uscirà ricco dalla guerra, e chi con le pezze ai pantaloni. Certamente i poveri lo erano e lo saranno ancora di più, i più onesti e i più deboli. Forse avremo delle sorprese, e capiremo il “tasso di umanità” di chi è stato implicato nel conflitto: sarà inversamente proporzionale ai soldi accumulati, siamone certi.

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