Adesso è proprio lei!

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Maestosa eppur lieve, d’un candore verginale e al tempo stesso materna nel suo chinarsi verso chi guarda, la Madonna per il nuovo santuario della Santissima Trinità a Fatima – l’ultima grande opera di Benedetto Pietrogrande – mi offre lo spunto per conoscere più a fondo questo scultore veneto, un artista che non sa pensare il creare separato dal vivere. Mentre mi parla, va tracciando nell’aria con le mani segni a volte forti e decisi, a volte teneri come una carezza. Sembra quasi maneggi una invisibile stecca da scultore mentre plasma la materia: la stessa da cui sono nate opere monumentali come l’arcangelo Gabriele bronzeo che nobilita la piazza di una Monza opulenta, ma che forse proprio per questo invoca un’anima, come altre di minor formato, pensate per lo spazio quotidiano di una casa dove, invece di sovrapporsi ad altri oggetti, sembrano entrare in colloquio con loro. E in tutte la stessa qualità artistica: bellezza unita a vigore. Sarà che per Benedetto l’artista è un uomo comune, che vive la stessa realtà di chiunque, solo che è portato a leggerla in profondità e ad esplicitarla col suo talento perché anche altri giungano a guardare uomini e cose con occhi diversi. Da dove questo risultato? Partiamo da lontano, dagli anni giovanili vissuti nel costante assillo di pervenire ad un proprio linguaggio artistico cercando dei contenuti, un’anima per ciò che gli ispiravano estro e fantasia. Arduo il percorso, anche per l’estrema sua sensibilità, e attraverso tappe significative. Come quando – ancora negli anni in cui vive a Venezia – dopo aver distrutto le sue sculture in gesso, espressione di un linguaggio accademico ormai superato -, dei pezzi infranti fa riempire un barcone che poi – visione quasi surreale – s’allontana nella laguna con tutto il suo passato. O quando, sperimentato il limite, il fallimento, realizza un Cristo crocifisso che chiama L’urlo: un’opera alla quale ne seguono altre ancora molto tormentate. A questo punto si spalanca per Benedetto un nuovo orizzonte: un incontro, l’incontro con Mariuccia, la compagna della sua vita. Nello stupore ed in un nuovo slancio accolgo questo dono dalle mani del Creatore. La condivisione con mia moglie, la nascita dei miei figli creano un clima di unità vitale dove l’affanno creativo si ridimensiona, cresce la mia adesione umana alla realtà e mi rivolgo a contenuti che maturano il mio linguaggio artistico. Si affaccia un ulteriore passaggio nel suo percorso di uomo e di artista. Ormai trasferito a Milano con la famiglia per nuove prospettive di lavoro ed in attesa di un trasferimento a Brera, è costretto per cinque anni ad essere pendolare a Venezia, dove mantiene l’insegnamento all’Accademia di Belle Arti. Erano viaggi in treno di notte per poter rimanere più a lungo possibile con la mia giovane famiglia e tenere contatti artistici. Miei compagni di viaggio erano povera gente, emigrati, militari… in scompartimenti ingombri di pacchi e valigie. Ma in quell’assoluto disagio cominciavo a vedere cose nobilissime e a sentire storie vere. Una volta da una vecchia valigia ho visto emergere, fra il disordine di indumenti e bottiglie, una bambola. Nell’emigrato che mi stava davanti ho colto allora un mondo di affetti. Un’altra volta, all’arrivo alla stazione di Milano, affacciandomi al finestrino mi ha colpito una lunga fila di valigie sopra le quali, da un cartoccio, spuntava un grande pane. Una immagine, direi, eucaristica, rivelatrice di una realtà impensata. Quel giorno, rincasando, ho detto a Mariuccia, certo che mi avrebbe compreso: La stazione centrale è una cattedrale. In questo calarsi nella realtà umana fino a riconoscersi tra gli ultimi, Benedetto intravede anche negli oggetti più modesti, abbandonati o scartati spiragli da cui leggere l’uomo, la precarietà della sua condizione. E veicolando così valori essenziali, possedevano una dimensione di dignità per cui potevano raggiungere bellezza formale e diventare qualità d’arte. Quasi naturalmente i temi dell’uomo entravano ed erano pane spezzato anche all’interno della nostra famiglia. Tramite amici comuni – siamo nei turbolenti anni del ’68 – per Benedetto arriva l’annuncio di uno stile inedito di vita evangelica, quello dei Focolari. Era la novità di una Parola della Scrittura vissuta in maniera collettiva, dovunque nel mondo fosse diffuso il movimento. Quella volta era Non vogliate giudicare. Per me che, malgrado la mia precedente conversione verso l’uomo, conservavo riserve e giudizi riguardo a singole persone, alla società, alla stessa Chiesa, è risultata una parola sconvolgente. Dal quel momento, e via via approfondendo la spiritualità dell’unità, ho guardato con occhi nuovi i miei limiti e quelli degli altri nella ricerca di ciò che univa. A questo punto non mi è stato difficile comprendere che la mia ri- cerca artistica veniva dopo, ma poteva acquistare un senso in quella luce e collocarsi in un disegno che la trascendeva. Essa aveva trovato il suo spazio, permettendomi di continuare la mia attività di sempre senza dualismi, con il cuore indiviso. Questa nuova libertà interiore ha un riflesso anche nel linguaggio artistico di Benedetto, che comincia a sfondare con idee e opere diversamente ispirate. È il periodo, durato alcuni anni, dei fagotti, delle bisacce, delle valigie e simili altre creazioni, emblematiche di una umanità in cammino verso una meta non provvisoria. Chiamato talvolta ad operare anche in spazi architettonici, Benedetto ne riceve nuovi stimoli. Cerco, innanzitutto, di immedesimarmi nel progetto, tenendo conto della sua logica costruttiva e funzionale, ma, soprattutto, del significato del luogo. Nel confronto professionale con l’architetto, nel rispetto e nella stima reciproca, si perviene ad un’idea che tiene presente la globalità del progetto: un’idea che mi trovo a sviluppare in piena libertà. A questo livello d’intesa tra operatori artistici, il rapporto creativo di un’équipe acquista un’unità professionale, in cui nessuno è secondo. Nella coesistenza del vecchio e del nuovo, in un presente di incertezze e di cambiamenti epocali, non ho tanto l’impressione di inventare quanto di cogliere momenti di sintesi: intuisco e raccolgo nel dialogo con la contemporaneità elementi vitali che confluiscono e si alleano. Ed ogni qualvolta, nella mia ricerca, vedo questa convergenza, un senso di profonda gratitudine mi pervade: è la percezione di una Presenza d’amore. Non ha tanto privilegiato l’iter di gallerie e di mostre, o il rincorrere approvazioni e successo, ma conducendo con i suoi familiari uno stile di vita sobrio e abbandonato alla provvidenza, accettando – allorché sembra che Dio glielo chieda – di posporre la sua arte per privilegiare la famiglia o la comunità di cui fa parte, Benedetto si ritrova a sua volta plasmato interiormente. Nella spiritualità dell’unità, vissuta innanzi tutto in profonda sintonia con Mariuccia, Benedetto trova la dimensione ideale per qualsiasi tipo di creazione. È quanto si coglie, appunto, nella Madonna commissionatagli per la chiesa della Santissima Trinità a Fatima. Su questa importante scultura, in particolare, vale la pena soffermarsi. Dopo vari studi e bozzetti, avevo prodotto un modello in gesso, arrivato a destinazione offeso in alcune sue parti durante il trasporto. Credevo perciò di essere ormai fuori concorso, e invece dopo due giorni vengo a sapere di essere stato scelto con la motivazione, da parte della commisssione artistica internazionale, di aver colto nel mio linguaggio figurativo l’interiorità che ben si addice alla rappresentazione del sacro. Di fronte alla monumentalità di una figura di tre metri che doveva essere contemplata da lontano e non più nello spazio esiguo di uno studio, nel tradurre il modello originale in quello definitivo, il marmo stesso conduceva le mie mani a soluzioni formali non lontane dal modello, ma certamente innovative che mi portavano ad una maggiore sintesi. È stata durissima, ma fondamentale per me, quest’esperienza del limite di fronte a qualcosa di troppo grande da esprimere, addirittura la Madre di Dio. Tanti gli interrogativi che mi facevano lavorare con inquietudine e sofferenza. Insomma, fino all’ultimo giorno, quello della consegna, un’opera curata e penetrata in ogni particolare, piena di ferite mie. Quando, come un fedele fra i tanti, sono andato anch’io all’inaugurazione della nuova Madonna, mi è apparsa tutta diversa in quella spazialità, in quella luce che rendeva quasi trasparente il marmo, dove potevo valutare la riuscita di alcuni particolari per i quali mi ero sentito perso. Infatti, riguardo ad alcuni segni caratteristici che configurano l’immagine devozionale di Maria di Fatima e nel rifiuto di certi dettagli tipici delle Madonne fatte in serie, constatavo che l’esposizione del cuore risulta come un respiro, qualcosa che s’intuisce da una ondulazione del corpetto di Maria. E così la corona del rosario, che invece di pendere dalla mano diventa quasi una preziosità del manto. Leggermente china verso i fedeli, col manto che la chiude e la apre,Maria appare in movimento, e questo la rende viva. Soltanto allora, guardandola, ho detto con un sospiro di sollievo: sì, adesso è proprio lei!.

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