Addio ad Ermanno Olmi, poeta dall’anima pura

A 86 anni è scomparso il grande regista italiano che ha saputo dosare, nelle sue opere, mistero e sorpresa, regalandoci opere indimenticabili, che fanno parte del nostro patrimonio culturale.
Ermanno Olmi

Un poeta del cinema come pochi nella storia italiana. Se n’è andato a 86 anni ad Asiago, dove viveva,  con la discrezione che ha accompagnato tutta la sua vita. Bergamasco, figlio di operai, orfano di padre morto in guerra, impiegato in una azienda. Una giovinezza non facile. Non era un intellettuale pieno di sé come altri autori nostrani. Era semplice, dolce e deciso come l’ho conosciuto anni fa durante un’intervista davanti ad un buon bicchiere di vino.

Le mani erano malate, ma gli occhi sprizzavano luce. Ha amato i poveri, gli umili, i soli. La gente modesta: lo studente e il guardiano di una diga in montagna nel primo film, Il tempo si è fermato del ’59, i due ragazzi al loro primo impiego ne Il posto del ’61 (premio della Critica a Venezia), I fidanzati ritratti nella poesia del quotidiano nel ’63, storia realistica ed intima.

Di formazione cattolica si è trovato subito in sintonia con papa Giovanni, a cui ha dedicato nel ’65 il docufilm E venne un uomo, sincero ma non agiografico. Olmi è stato sempre nemico di ogni lusinga o artificiosità, istintivamente portato alla verità della vita. È il clima che anima forse il suo capolavoro, L’albero degli zoccoli (1978), Palma d’oro a Cannes. Un epos mite e laborioso di un mondo contadino che non esiste più, contemplato e descritto con un senso di pietas manzoniana fervida, semplice e “pastorale”, di naturale religiosità. La gente rurale e modesta tanto amata da Olmi, che prediligeva lavorare con attori non professionisti, più autentici, e con i giovani, per i quali ha fondato la scuola  Ipotesi cinema a Bassano del Grappa nel 1982.

Poi, un altro trionfo con il Leone d’oro a Venezia nel 1988 con La leggenda del santo bevitore, il racconto fiabesco di una natura incantata e parlante ne Il segreto del bosco vecchio (1993) tratto da Buzzati con un incredibile, stupendo, Paolo Villaggio. Nel 2001 filma Il mestiere delle armi, riflessione sulla morte del condottiero Giovanni delle Bande Nere dalla immedesimazione del giovane sofferente con la passione del Cristo. Film di sguardi penetranti, di frasi brevissime, di squarci naturalistici pittorici. Di un mistero inquieto – la morte – davanti a cui Olmi, sorpreso, si interroga.

Negli anni matura il cammino del regista, attento al sociale, ma anche con una sua linea visionaria e profetica che cerca sempre nuove vie. È uno stupore che lo pervade anche negli  ultimi film, forse incompresi da un certo establishment religioso e intellettuale, eppure carichi di una ricerca spirituale densa, emotiva e anche lacerante. Dove Dio in un modo o nell’altro è presente. È forse questa la chiave per entrare in Centochiodi (2007) e in Il Villaggio di cartone (2011). Il primo, storia di un professore che sfregia i libri antichi, che lascia tutto e va a vivere fra la gente umile del Po. Nuovo Cristo, è accolto dai semplici, non dai sapienti, racconta parabole evangeliche, poi sparisce. Perché non è rimasto?

Nel Villaggio di cartone  la chiesa che il vecchio prete si vede demolire è il segno di un tipo di religione destinata a scomparire. Ma cosa resta? Il prete precipita lui pure in un buio autentico. Dio davvero scompare e resta solo l’oscurità pesta nella sua anima. La scena del crocifisso calato dall’alto, ripresa da Olmi con inusitata lentezza, è un grido desolato del Cristo stesso, di nuovo ucciso e abbandonato. O che si è lasciato abbandonare.  Eppure, una risposta arriva. Sono gli immigrati che di notte scivolano a chiedere aiuto nella chiesa, dove costruiscono un villaggio di cartone: si prega, ci si aiuta, si dialoga.

Questa umanità derelitta  spinge il prete a non pensare al proprio dolore per fare la sola cosa che conosce: amare. Il Dio di Olmi sembra risorto dalla notte di duemila anni or sono, quello della povera gente addolorata e fuggitiva, grazie ad un gesto di amore.

Profetico ed eloquente, contestatore  di una religiosità “clericale” fredda, e partecipe della fine di un certo tipo di cristianesimo, il film vede Olmi tornare alle sue radici. Come i grandi vecchi, Olmi era giunto all’essenziale.

Nell’ultimo lavoro Torneranno i prati (2014), girato sull’altopiano di Asiago, film di grande bellezza e di rara acutezza spirituale, il regista parla della prima guerra mondiale come in una “visione illuminata della memoria”.

La storia non è realistica, anche se  le riprese in una trincea sotto quattro metri di neve sono autentiche, come le nevicate e il paesaggio ed il racconto è ambientato nell’inverno del 1917 con le bombe degli austriaci vicine e la ritirata di Caporetto all’orizzonte. Il lento martirio degli uomini scorre nel ritmo del rancio che arriva con la posta dal mulattiere meridionale, che canta solo in mezzo alla neve, ma poi intristisce il cuore di fronte alla morte, nelle preghiere del cappellano, nel soldato che si spara in trincea disperato, nel seppellimento dei morti cui sovrintende il giovane tenentino dagli occhi sbarrati, dentro quella neve che ora li avvolge, ma poi si scioglierà. Torneranno a fiorire i prati e di quei morti nessuno se ne ricorderà più, nell’oblio attuale della memoria.

Film di silenzi sterminati, di visioni oniriche come l’abete argenteo, segno forse di una luce superiore, è il testamento del regista. Olmi lascia cantare la poesia della sua anima ancora pura in una contemplazione lirica della natura. Sugli uomini, piccoli e fragili di fronte alla morte incombente, il regista stende il suo antico e autentico sentimento della pietas cristiana. Anche Dio sembra lontano, il Dio che ha lasciato ”morire in croce il figlio”, come dice un soldato, ma risuona alta l’evangelica richiesta del perdono per il tradimento alla vita mediante una inutile strage.

Il dolore è infatti la tematica sottesa all’intera narrazione come al percorso filmico di Olmi: mistero e sorpresa insieme, insondabile.

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