Accadde in Alabama

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Da tempo gli avvocati dei neri cercavano l’occasione giusta per muovere una guerra. Non con i mitra, s’intende, ma certamente non meno decisa. Volevano abbattere la legittimazione costituzionale delle leggi – statali e cittadine – che stabilivano la segregazione razziale negli autobus. Era, questa, una delle forme più evidenti ed odiose di discriminazione. A Montgomery, in Alabama, ad esempio, bianchi e neri avevano assegnate, negli autobus, parti separate: di solito, le prime quattro file dietro l’autista erano per i bianchi e un segnale mobile indicava da quale fila potevano sedersi i neri. Se i posti dei bianchi si riempivano, però, il segnale veniva spostato all’indietro e i neri dovevano alzarsi e scalare le file o, se necessario, scendere. Ed è proprio questa situazione a verificarsi, alle sei di sera del primo dicembre 1955, nell’autobus di Cleveland Avenue: ma Rosa Parks, una nera di 42 anni, rifiuta di alzarsi; non ero vecchia, né stanca – raccontò inseguito -; non più stanca del solito dopo una giornata di lavoro: No, ero solo stanca di cedere. Le era già successo, naturalmente, di cedere; la prima volta nel 1943, da poco arrivata a Montgomery: l’autista dell’autobus, James Blake, l’aveva fatta scendere dalla porta anteriore, dicendole di risalire da quella posteriore ma, una volta a terra, era ripartito senza darle il tempo di risalire; uno scherzetto che costò a Rosa cinque miglia sotto la pioggia. E il caso volle che, dodici anni dopo, fosse lo stesso James Blake a intimarle di scendere. Non era cambiata la città, non era cambiato l’autista, era cambiata Rosa. Perché è così che funziona: le battaglie esterne si vincono solo dopo quelle interne. E Rosa, dentro di sé, aveva vinto: si era istruita, sposata, lavorava ed era diventata una cittadina modello, attivista per i diritti civili; ogni abuso nei confronti di lei, innocente come un bambino, era naturalmente avvertito come odioso. Anche per questo, proprio perché lei è la persona giusta, quattro giorni dopo l’intera comunità nera aderisce al boicottaggio degli autobus di Montgomery; piove, e in circa 40 mila vanno al lavoro con mezzi alternativi, oppure a piedi, percorrendo anche 20 miglia. Il boicottaggio durerà 381 giorni, fino al 20 dicembre 1956, quando arriverà in città l’ordine della Suprema corte che dichiara incostituzionale la segregazione negli autobus. Fu solo il primo, importante risultato, al quale i razzisti reagirono con una ondata di violenza; simile, in effetti, a quella che si abbatté agli inizi del boicottaggio, in un crescendo soprattutto tra gennaio e febbraio, esattamente cinquant’anni fa; la casa di Martin Luther King, ad esempio, fui colpita da una bomba il 30 gennaio, Rosa Parks fu nuovamente arrestata il 22 febbraio, e così via. In realtà, il caso legale di Rosa non fu considerato come il più favorevole per ottenere in breve tempo una sentenza di incostituzionalità della segregazione, e gli avvocati utilizzarono quello della casalinga Aurelia Browder. Ma Rosa Parks era stata la persona giusta per catalizzare la protesta. Quel che gli avvocati non sapevano, all’inizio, era che il movimento aveva bisogno di un’altra persona giusta: un capo carismatico che gli avrebbe dato il fondamento spirituale e culturale adeguato ad attraversare le difficoltà più forti; una guida che, rendendosi conto dei pericoli della lotta, il 14 gennaio 1957 interruppe improvvisamente un discorso pubblico per gridare: O Signore, spero che nessuno debba morire in conseguenza della nostra lotta per la libertà a Montgomery. Certamente io non voglio morire, ma se qualcuno deve morire, che sia io. Lo sbocciare di Rosa porta il frutto di Martin Luther King il quale, fin dai primi giorni, si impegna nell’organizzazione della protesta. Alla base della sua formazione c’è il cristianesimo vivo, in continuo rapporto con la Parola biblica, al quale è stato educato dal padre. Un cristianesimo che diventa ben presto scelta di vita e maturerà al punto che Martin sceglierà di diventare pastore, come il padre. Su questa base si inseriscono, in tempi diversi, due altri grandi insegnamenti. Il primo è quello di Thoreau, il cui saggio Sulla disobbedienza civile capita tra le mani del giovane ai tempi del college. La riflessione di Thoreau consegna a Martin la prima impalcatura teorica sulla quale poggiare il progetto di emancipazione dei neri attraverso la lotta per i diritti civili. Il secondo insegnamento è quello di Gandhi, che permette a Martin di sviluppare la propria convinzione sulla necessità di sradicare l’odio dal proprio cuore: è da questa grande guerra nei confronti di sé stessi che scaturisce l’atteggiamento gandhiano, che non significa remissività, ma capacità di affrontare il male col bene, di assorbire e annientare in se stessi la violenza dell’avversario, mettendolo davanti alla propria coscienza. King riesce a inserire l’insegnamento del Mahatma nella propria radice evangelica, a collegare cioè la nonviolenza col discorso della montagna di Gesù. Gandhi insomma aiuta Martin Luther King a svelare un contenuto del Vangelo che ai più resta ignoto, o che viene sovente interpretato come una formula bella ma impraticabile: la vita di Gandhi dimostra che è possibile tradurre in pratica il precetto: Fate del bene a coloro che vi odiano, trasformandolo anzi in un metodo di lotta efficace. Si può certamente parlare di una genialità di King nel portare l’idea e la pratica della nonviolenza nel contesto cristiano, innestandola nella radice di Dio Amore, attraverso il Vangelo vissuto. Mai mancheranno nei discorsi di Martin i riferimenti biblici: e non solo nei sermoni domenicali all’assemblea dei fedeli, ma negli interventi pubblici più impegnati, nei momenti più critici, quando i manifestanti neri sono alle prese con la violenza poliziesca, o quando si tratta dì impostare una rischiosa iniziativa di lotta. Martin riesce a far scoprire a chi lo ascolta le risorse interiori della persona. Solo così si può comprendere che tanti lo abbiano seguito in una strada difficile; specialmente i giovani, ai quali King chiedeva la disponibilità a dare la propria vita. Non chiedeva un piccolo sacrificio, una rinuncia misurabile col tornaconto che ne sarebbe conseguito. Chiedeva tutto; e i giovani lo seguivano perché il tutto è la misura della dignità umana, della persona, che la sua parola risvegliava in loro. Per marciare con Martin Luther King ogni giovane doveva già aver conquistato, dentro di sé, il diritto per il quale lottava; come è sempre stato nell’autentica tradizione guerriera: solo dopo aver sconfitto il nemico interiore si può iniziare la lotta esteriore. Con una differenza: che nella prospettiva cristiana e non violenta, chi ha sconfitto il nemico interiore non ha più bisogno di avere un nemico esterno, e può condurre la propria battaglia senza odio. Martin Luther King si espone al rischio fin dall’inizio della sua lotta per i diritti civili dei neri: un rischio mortale, sia per lui che per la sua famiglia. Il movimento generato da Martin produce ben presto i suoi martiri. C’è anzi da chiedersi come mai proprio il pastore nero non sia stato tra le prime vittime della reazione bianca. Il suo percorso, comunque, è scandito da numerosi segni di violenza, a partire dalla coltellata che lo colpisce nel 1957, che in qualche modo lo preparano al sacrificio finale. Ben presto Martin comprende che ogni giorno, ogni manifestazione pubblica può essere l’ultima. Nei primi anni, però, nonostante singoli fallimenti, numerosi successi accompagnano la sua opera, il movimento per i diritti civili si espande e cresce contemporaneamente il sostegno internazionale, fino all’assegnazione del Premio Nobel per la Pace e all’approvazione di importanti leggi, negli Stati Uniti, contro la discriminazione razziale. Arrivato al culmine del successo, si apre una nuova fase dell’impegno pubblico di King, contrassegnata da una apertura di orizzonti. Gli obiettivi per i quali si era battuto nei primi anni si allargano, si universalizzano: Martin comprende che la lotta non può riguardare solo i diritti civili dei neri, ma anche quelli dei bianchi poveri, emarginati in ugual modo. Sono anni di conquiste, ma anche di pesanti insuccessi. Cresce la componente violenta nella protesta nera, nascono nuovi movimenti su basi molto diverse da quelle date da King alla propria azione. La stessa opposizione di Martin alla guerra in Vietnam gli aliena molti consensi. Progressivamente, gli appoggi diminuiscono e la solitudine aumenta: contro il suo arresto dell’ottobre del 1967 non si registra una consistente mobilitazione, né interna né internazionale, paragonabile a quelle di episodi analoghi precedenti. Soprattutto, si fa avanti una solitudine interiore. Nell’ultimo periodo cresce in Martin una spossatezza, un’amarezza, che assumono i contorni della prova spirituale. Potrebbe certamente ritirarsi, ritornare al suo lavoro di pastore con la consapevolezza di aver fatto abbastanza. Ma Martin Luther King va avanti ancora, quasi per un senso del proprio destino. C’è un momento, nella vita di molti uomini, in cui sembra non esserci più alcuna ragione per proseguire nel proprio sacrificio; un momento in cui sono aperte davanti altre possibilità, altre strade, alle quali potrebbero accedere con buoni motivi, quali il dovere nei confronti della propria famiglia, la necessità di salvaguardare la salute. È il momento in cui alcuni uomini scelgono, a buon diritto, la soluzione suggerita dalla ragionevolezza. Altri invece decidono di condurre il gioco fino in fondo, sulla sola base di una spinta interiore, di un discorso condotto, nella nudità, con se stessi o, per chi lo vede, con Dio. Quest’ultima è la scelta di Martin, che ne fa una figura sacrificale, come quelle, immolatesi in forme diverse e in diversi contesti negli stessi anni Sessanta, di Che Guevara, di Jan Palach, di Malcolm X. Queste figure sacrificali hanno sentito la necessità interiore del martirio; e, d’altra parte, il martirio era, in un certo senso, necessario al loro compito, lo ho un sogno… , aveva detto Martin nel suo discorso di Washington: e in quel sogno egli esprimeva il proprio ideale. E l’ideale di un uomo coerente può non realizzarsi completamente nella società, cioè all’esterno; ma finisce per realizzarsi nella sua persona, diventando presenza interiore. E quanto è avvenuto in Martin Luther King, che viveva in se stesso la libertà che cercava per gli altri. A questo punto, il martirio non serve più tanto a chi lo subisce, ma a chi vi assiste, ai testimoni, agli altri uomini: è l’atto con cui l’ideale di un uomo, già reale dentro di lui, diventa reale, carne e sangue, per gli altri. È il compimento di una donazione, la costruzione di un ponte tra la realtà del profeta e gli uomini per i quali è stato inviato. CORETTA ADDIO! Era la vedova di Martin Luther King jr, cui aveva dato quattro figli. Figlia di un bracciante dell’Alabama e nipote di schiavi, si era laureata in magistero per fare uno dei pochi lavori non manuali possibili ad una donna di colore, molto prima che Rosa Parks rifiutasse di cambiar posto in autobus a Montgomery, la città dove è morta il 31 gennaio scorso a 78 anni. Dotata di grande forza morale, intelligenza e sensibilità, aveva sostenuto il marito nella sua missione, fino alla tragica morte nel ’68. Ma già negli anni Cinquanta era stata attiva nel movimento per i diritti civili dei neri, tra dimostrazioni pacifiste e marce di protesta. Si considerava prima di tutto una moglie e una madre di famiglia. Divenuta una icona del movimento non violento al di là delle sue intenzioni (non si era mai considerata una santa), ha tuttavia diffuso intorno a sé un senso di rispetto e di regale dignità.

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