A cena da Giulia

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Uno dei pregi di Giulia è di metterti subito a tuo agio. Puoi capitare a casa sua senza preavviso, magari a ora di cena, ma lei non si scompone: con la sua giovialità un po’ rude ti obbligherà a fermarti, preparando in men che non si dica qualcosa da mettere in tavola. Mentre ti intrattiene in cucina, sorvegliando la cottura dei cibi, sciorina vari argomenti, ma quello più ricorrente riguarda Virgilio. Lui romano, mentre lei, Giulia, è una sabina di Salisano, in provincia di Rieti. C’eravamo conosciuti nella tipografia di suo zio Luigi, sul colle Oppio, dove io confezionavo sacchetti per caffè, cemento, ecc. (allora tutto si faceva a mano) e lui componeva lettere col piombo. Cinquantadue anni di matrimonio, quattro figli ora sposati, due dei quali – Mauro e Massimo – tuttora lavorano nella tipografia fondata dal padre. Per dieci anni Virgilio lavorò nella tipografia Ferri in via delle Coppelle dove, sul finire del ’56, si incominciò a stampare il nostro periodico. Fu l’incontro con uno stile di vita inconsueto: Città nuova gli parlava di unità da portare in ogni ambiente attraverso un amore concreto verso tutti, un amore che lega in una famiglia più forte di quella naturale. Virgilio però, puntualizza Giulia, non prese fuoco subito. Solo più tardi avvertì che quel tipo di cristianesimo rispondeva alle sue esigenze profonde: soprattutto dopo l’estate del ’57, quando, per conoscere più da vicino quella novità di vita, partecipò ad una Mariapoli sulle Dolomiti a Fiera di Primiero, coinvolgendo la moglie e i primi tre figli ancora piccoli: Roberto, Massimo e Mauro (Giovanna era di là da venire). Io – racconta Giulia col suo accento romanesco – avevo acconsentito più che altro per disilluderlo riguardo ai focolarini. Il perché fossi contro, non saprei. Non che mi fossero antipatici, ma… sarà che ero una cristiana all’acqua di rose e loro invece… Comunque non perdevo occasione per fargli, a quella gente lì, qualche piccolo dispetto. Che peste che ero, bisogna riconoscerlo!. Eppure anche un tipetto così finì per rimanere toccato dalla semplicità evangelica di quel popolo in mezzo a cui Cristo si avvertiva singolarmente vicino. Con lui tra noi mi si allargavano gli orizzonti, vedevo meglio quello che dovevo fa’. Quanto a Virgilio, intravide lì una via di santità aperta a tutti, anche per gli sposati, anche per chi aveva a che fare con il piombo e la carta. Io invece ero insofferente, e ogni qualvolta lui dedicava un po’ del suo tempo al movimento brontolavo. Non però con cattiveria: io stessa in fondo sentivo il fascino di quella vita, capisci? Anche se non volevo ammetterlo, i focolarini li stimavo per la loro chiamata esigente. E poi erano di casa da noi. Se litigavamo qualche volta? Eccome! Non credere che lui fosse perfetto, come neppure io. Anche coi figli a volte c’erano discussioni quando non vedeva le cose fatte bene, lui così esigente. Sempre però facevamo pace in giornata e tutto finiva lì. Una tappa nuova fu quando – era l’ottobre del ’63 – si cominciò a stampare Città nuova a Grottaferrata. A Virgilio era stato chiesto se se la sentiva di contribuire con la sua esperienza a quell’avventura, entusiasmante ma incerta. Per un padre di famiglia ci sarebbe stato di che esitare; ma a lui quella proposta era suonata come un vieni e seguimi di Gesù. Più pratiche le considerazioni di Giulia: Di soldi non ne avevamo mai in abbondanza, e avevo insistito perché non lasciasse il posto sicuro che aveva da Ferri. Macché! Non c’era stato verso di convincerlo. Così per qualche anno. Fino all’attuale tipografia in proprio, nata verso il ’64-65. Per mantenerla in piedi, c’era da sgobbare dalla mattina presto alla sera, per cui anch’io davo una mano lì, oltre a badare alla casa e ai figli. Dovevamo fare grandi sacrifici per pagare le macchine tipografiche, ma per me sono stati gli anni più belli, perché avevo modo così di stare tutto il giorno con mio marito. Sempre però, nei momenti critici, qualcosa interveniva a ribaltare la situazione. Come quella volta che non sapevamo come pagare una cambiale di 613 mila lire d’allora. Il giorno stesso in cui sarebbe andata in protesto, un cliente ci commissiona un grosso lavoro e, contrariamente al solito, insiste per pagarci un anticipo di 650 mila lire! E questo quattro ore prima della scadenza del pagamento. Come la chiami, se non provvidenza?. La conversazione continua a tavola, davanti ad un appetitoso risotto alla pescatora. Alle espressioni sempre molto colorite di Giulia si mescolano miei ricordi personali riguardanti il cammino spirituale di Virgilio, la sua fedeltà nelle piccole cose. Radice di questo atteggiamento, l’adesione – come ebbe a confidare una volta – a Gesù nel suo massimo dolore, quando è abbandonato, per fare la volontà di Dio. Così, quando nell’estate del ’96 la malattia cominciò ad aggredirlo manifestandosi con un infarto cerebrale, Virgilio si rimise ancora una volta a ciò che Dio disponeva. Non era, la sua, un’inevitabile rassegnazione, ma una scelta di libertà e donazione. Nel reparto del policlinico Umberto I dove fu ricoverato, aiutò e sostenne i vicini e i lontani di letto, creando un circuito di aiuto reciproco. (In seguito molti di loro, da diverse parti d’Italia, desiderarono restare in contatto con lui). Appena tornato a casa e di nuovo un po’ in salute, Virgilio riprese gli incontri con un gruppetto di persone che stavano facendo sotto la sua guida un cammino spirituale. Non certo però con la pretesa di insegnare, come spiegò ad uno dei figli che s’era stupito: Ma cosa puoi fare con le poche forze che hai?. E lui: Basta ascoltare. Già, Virgilio sapeva ascoltare. Aveva scoperto che ciascuno ha sempre qualcosa di importante da insegnare. Nell’ultimo anno di malattia, le sue parole avevano il riflesso della Sapienza: offriva indicazioni preziose che illuminavano, consolavano, sostenevano, a seconda dei casi. Tutto con grande pudore, convinto di trovarsi in un’avventura molto più grande di lui. Quel pudore che lo spingeva a far credere ai familiari di non saper nulla del tumore al polmone per non preoccuparli. Dal gennaio ’98, mentre il quadro clinico progressivamente peggiorava, Virgilio cavava fuori tutta la sua tenerezza e sensibilità verso moglie e figli. Non solo: All’infermiera che lo accudiva baciava la mano in segno di ringraziamento . E se a volte esprimeva il rammarico di non riuscire sempre a cogliere il senso di quel patire, più spesso appariva sereno, preparato. Ancora non riesco a capacitarmi come non si lamentasse mai, con quei dolori. Nell’ultima settimana che gli restava da vivere, poi, gli sentivo ripetere: Abbà. Ma che significa? gli ho chiesto una volta. Giulia, abbà vuol dire papà. È da mo’ che so’morti i nostri genitori…. Ma no, penso al Padre celeste. Ecco da dove prendeva quella forza. Non riesco a pensarlo morto – osserva Giulia, cui solo ora sembra di aver scoperto chi era il compagno di tutta una vita -. Per me è come fosse via solo temporaneamente, come quando si assentava per qualche incontro del movimento. E gli parlo, ma non da matta; gli parlo con la stessa confidenza di una volta, sapendo che lui mi ascolta. Anche al cimitero di Rocca di Papa, quando vado a trovarlo, continuo questo colloquio. Certo, guardando le foto dei focolarini lì sepolti, mi sento sempre in colpa con Giulio Marchesi che è proprio accanto a Virgilio… sai, è per via di quel sale che una volta gli ho messo nel caffè per fargli dispetto!. Così è fatta Giulia: la battuta anche nei momenti più seri, quasi a mascherare la delicatezza di sentimenti che c’è dietro la sua scorza. E ora? Mi sento serena, evito di fare discussioni, io che prima non ne facevo passare una. Sono più pronta a scusare. Non so se è segno di saggezza… o perché c’è stata di mezzo un po’ di sofferenza. E poi mi sento una persona libera, fiduciosa che tutto prima o poi finisce per il meglio. Non mi manca niente. Per me l’ideale dell’unità è tutto… anche se a volte m’incavolo ancora!.

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