A Capri con Tiberio

Sull'isola campana alla scoperta di Villa Iovis, dimora prediletta dall'imperatore romano.
villa iovis capri

Una rilettura delle Lettere di Tiberio da Capri mi offre lo spunto per parlare dell’autore di questa fine e intelligente “finzione” su un imperatore a suo modo grande, pur «in un contraddittorio intreccio di gesti munifici ed efferatezze, fanciulleschi terrori e lungimiranza politica»: si tratta di Amedeo Maiuri (1886-1963), archeologo sommo quanto umile, che volle essere solidale con l’uomo di tutti i tempi e per il quale la frequentazione del passato doveva giovare al presente. Ciociaro di Veroli, il suo nome è però indissolubilmente legato all’archeologia campana – e Passeggiate campane è appunto un altro bestseller – avendo per 40 anni, come soprintendente a Napoli, svolto un’attività veramente prodigiosa: per dirne solo qualcosa, sul versante vesuviano, ha ripreso con metodi moderni lo scavo di Ercolano e dato enorme impulso a quello di Pompei; su quello flegreo, ha scoperto l’Antro della Sibilla Cumana e gran parte di Baia, città termale celebre nell’antichità; su quello delle isole, infine, ha riportato alla luce Villa Jovis a Capri. Vorrei rendergli omaggio proponendo un itinerario che tocchi appunto questa superba dimora, prediletta da Tiberio al punto da trascorrervi – salvo brevi e fugaci escursioni – gli ultimi 30 anni della sua vita: da qui, in pratica, governò l’impero.

 

Pur ridotta al puro scheletro, essa giganteggia ancora in cima al Monte Tiberio, circa 300 metri a strapiombo sul mare; immense cisterne, atte a captare l’acqua piovana così preziosa in mancanza di altre vene d’acqua, erano al cuore della costruzione, che si espandeva in quartieri di soggiorno e belvedere che assecondavano senza violentarla la natura, com’era arte dei romani. A ovest della villa, ecco ciò che resta della specola dalla quale, in certe notti, l’imperatore era solito interrogare le stelle sui destini suoi e dell’impero, in compagnia del fido astrologo Trasillo. Più a sud invece, isolato e quasi in bilico su un mare turchese, sorgeva il faro che un terremoto rovinò; presagio infausto che precedette di pochi giorni la sua morte.

 

Ma è soprattutto nella lunga "deambulatio" che si può immaginarlo aggirarsi, malinconico e diffidente: lì certamente Tiberio amava passeggiare, chiedendo ad uno dei più bei panorami del mondo, aperto sui golfi di Napoli e Salerno, sollievo alle cure del suo spirito inquieto. Panorama pressoché immutato, che testimonia un gusto quasi romantico nel vecchio imperatore, così ma-levolmente descritto da Svetonio e da Tacito. Si è infatti soggiogati dalla bellezza prorompente e allo stesso tempo inaccessibile di questa natura, simbolo quasi di un’aspirazione inappagata dell’anima. Neppure un imperatore, considerato dio in terra, poteva sottrarsi a questo limite. Al cospetto di tale bellezza, magari dando una scorsa a queste Lettere che fungono quasi da guida nei meandri di un’anima, si indovinerà forse meglio il dramma di Tiberio e il groviglio di amarezze che lo portarono al suo volontario esilio caprese.

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