Il 4 novembre ricorrevano i 30 anni dalla morte di Yitzhak Rabin, il premier israeliano assassinato (e con lui la speranza di pace) a Tel Aviv da Ygal Amir, un giovane colono israeliano, estremista di destra, condannato all’ergastolo che sta tuttora scontando. La sera di sabato primo novembre 2025 si sono riunite a Tel Aviv più di 100 mila persone per ricordare l’ex primo ministro, ucciso a causa degli accordi di Oslo con Yasser Arafat del 1993. Assente, come prevedibile, il premier Netanyahu, da sempre duramente contrario all’idea di “due popoli, due Stati”.
Un recente sondaggio – citato da Pierre Hasky su internazionale.it – rileva che oggi la polarizzazione in Israele si è accentuata: «Il 51 per cento degli israeliani giudica l’eredità di Rabin positiva, contro un 28 per cento che la giudica negativa (il resto è composto da indecisi). Eppure solo un terzo degli intervistati pensa che Israele si troverebbe in una situazione migliore se Rabin fosse sopravvissuto. Fatto ancora più grave, i due terzi della popolazione temono un nuovo omicidio politico».
Gli avversari di Rabin e del compromesso con l’Olp di fine anni ‘90, oggi – continua Hasky – «sono ormai al centro del gioco politico. Sul fronte palestinese, Hamas ha avuto un ruolo cruciale nella distruzione degli accordi di Oslo…».
C’è però una riflessione che non emerge, o forse non emerge abbastanza: Hamas e Netanyahu rispetto alla pace tra Israele e Palestina stanno dalla stessa parte, quella del rifiuto. Possono accettare tregue e compromessi strategici o imposti (da Trump), perfino la pace truce del più forte, ma non quella pace che riconosce, per esempio, il diritto dell’altro ad essere in dialogo con me e il mio dovere di dialogare con lui.
Per fortuna, o per grazia, la pace a cui avevano dato credito Rabin e Arafat non è scomparsa il 4 novembre 1995: ci sono anche oggi in Israele e Palestina persone che la geopolitica dei potenti non considerano, e che puntano la loro vita sulla pace e sul dialogo.
Mi viene in mente, per esempio, Vivian Silver. Ebrea di origine canadese, Vivian si è battuta per tutta la vita per il dialogo fra israeliani e palestinesi. Collaborando anche con B’Tselem, il “Centro d’informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati”, e impegnandosi con passione in Women Wage Peace (le donne portano la pace) che conta decine di migliaia di aderenti non solo in Israele e Palestina. Vivian viveva da anni con la sua famiglia nel kibbutz di Bee’ri, vicino alla striscia di Gaza, dove è stata trucidata il 7 ottobre 2023 dai miliziani di Hamas.
Yonatan Zeigen è figlio di Vivian Silver, ed è membro del Parents Circle-Families Forum, l’organizzazione di base di famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso parenti stretti nel conflitto e che credono che solo insieme si possa raggiungere una pace sostenibile. Intervistato da AsiaNews sulla precaria tregua in corso a Gaza, Zeigen ha affermato fra l’altro che ritiene pericoloso l’accordo per Gaza – la pace di Trump – perché «non specifica davvero come sarà il futuro», che lui auspica «sia improntato ad una realtà basata sull’uguaglianza».
Ammiro i sognatori come Zeigen e sua madre, penso che siano loro la speranza del mondo. Yonatan Zeigen era presente a Torino al Festival della Missione 2025 con altri “sognatori” speciali. È intervenuto l’11 ottobre all’evento “Disarmati. Volti della resistenza” insieme a Kim Aris, figlio della birmana, Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, e a Taghi Rahmani, marito dell’attivista iraniana Narges Mohammadi, anch’essa premiata con il Nobel, e attualmente agli arresti domiciliari dopo anni trascorsi nel carcere di Evin, a Teheran.
Zeigen ha detto parlando del futuro: «Noi che, come società civile, poniamo l’accento su una realtà e un futuro condiviso siamo considerati come pericolosi. Per avere più spazio, servono due fattori: un cambio di governo e un maggiore sostegno, legittimazione e risorse a livello internazionale».
Nei giorni successivi Zeigen è tornato con la sua famiglia nel kibbutz di Be’eri dove i miliziani di Hamas hanno ucciso sua madre, Vivian Silver, per onorare la sua memoria e «piangere assieme, immaginando il futuro, cercando di consolare mio figlio che oggi a nove anni piange per la morte della nonna». Affrontando il tema dei due popoli e della regione, Zeigen ha ribadito che ritiene necessari «una nuova leadership, un nuovo governo, una mentalità nuova» per entrambi i popoli, per israeliani e palestinesi. Mi affascina l’idea che sogni impossibili di questo genere siano proprio quelli che si possono avverare. Non è difficile, in fondo: basta tenere viva la memoria e continuare a sognarli.