Medea, l’io narrante della storia, rinchiusa da anni, sente improvviso il desiderio di raccontare di sé, «della difficoltà di sentirsi ancora donna, madre» per proiettarsi «in un futuro sereno con tanta tenacia e convinzione da cancellare l’episodio che l’ha condotta verso il nulla della pazzia».
Accanto a Medea altre donne abbandonate, recluse, dimenticate, respinte, ognuna col suo nuovo nome, ognuna con la sua storia capovolta. E intorno a loro le ombre del mondo che affiorano come ricordi, rumori, sensazioni o sentimenti perduti.
Pisano ha cercato negli occhi delle donne recluse il senso della vita, ne ha raccolto il canto disperato, quel desiderio straziato di amore e tenerezza.
Ci ha raccontato l’inenarrabile, rendendo umano quanto l’uomo con violenza ha deturpato, e lo ha fatto con audacia linguistica, con impennate iperboliche, quasi come in una partitura musicale.
Mario Tobino per primo e Alda Merini dopo hanno compiuto, quasi in anticipo, il riscatto di questo mondo. Pisano recupera nella sua originale creatività, la luminosità dei due grandi scrittori e ci consegna un’opera viva, che parla alla coscienza dell’uomo contemporaneo spesso dedito alla costruzione di altri “manicomi”, altri ghetti, altre separazioni: i “manicomi” dell’effimero, della violenza tacita, della mercificazione, dell’intolleranza, dove si continua ad insidiare il bene e a calpestare il destino dell’uomo.
Questo libro, per i tipi di Guida, è un canto che s’innalza sulle vasti paludi dell’oggi, il frutto maturo di una sensibilità poetica aperta alla solidarietà, la cui mancanza impedisce alle numerose creature che popolano i nostri piccoli e grandi ghetti, di volare alto, di sognare e sentire, almeno una volta nella vita, l’impalpabile soffio vitale di una di carezza o di un tenero bacio.