Alla radice del progetto europeo, giustizia sociale e ambiente

L’articolata proposta del Forum Diseguaglianze e Diversità per entrare nel merito delle questioni decisive nelle elezioni del Parlamento europeo. Un contributo per vincere la pericolosa disillusione crescente nella società sotto i colpi del l’ideologia liberista. Uno strumento concreto per agire senza attendere la riforma dei Trattati e monitorare l’attività degli eletti nel senso della partecipazione democratica
Festa Europa foto Archivio Ansa EPA/PAULO NOVAIS

L’Italia sarebbe in grado di affrontare le grandi emergenze del nostro tempo da sola? Cioè come Stato Nazionale del tutto autonomo?

Oppure l’ordine di grandezza dei problemi principali con cui ci dobbiamo misurare, che sia la pace o la crisi climatica, il governo dei movimenti migratori o la gestione dei dati e dell’intelligenza artificiale, la globalizzazione economica o l’innovazione e la ricerca scientifica, richiedono una scala adeguata, sovranazionale?

Le elezioni europee sono (o, forse, dovremmo dire “sarebbero”) una grande occasione per ripartire da questa domanda e confrontarsi nel merito dei problemi e delle possibili soluzioni.

Il Forum Disuguaglianze e Diversità è partito da qui, e già prevedendo, come puntualmente successo, che il dibattito pubblico in Italia e nelle sedi istituzionali europee sarebbe stato dominato da tatticismi e voti strumentali in funzione di possibili futuri schieramenti, ha pensato bene di mettere a disposizione del dibattito pubblico idee, diagnosi e proposte sul presente e sul futuro dell’Unione Europea, a partire da quei temi su cui in questi anni ci siamo misurati.

Ne è scaturito un libro collettivo, “Quale Europa. Capire discutere scegliere” (ed. Donzelli), di 16 autori e 13 contributi tematici, a cura di Elena Granaglia e Gloria Riva, che parte dalla consapevolezza che a sfidarsi oggi ci sono tre idee diverse di Europa: quella che ha governato gli ultimi cinque anni e che, pur compiendo passi in avanti, resta profondamente segnata dalla cultura neoliberista, quella conservatrice-autoritaria in forte ascesa, favorita dall’avanzare delle guerre che bloccano drammaticamente la spinta al cambiamento e quella di un’Europa di giustizia sociale e ambientale e di pace, che potrebbe riprendere il suo ruolo di palcoscenico avanzato dello sviluppo umano solidale che era alla base delle ragioni della sua nascita.

Non serve un’Unione qualsiasi. Non serve neanche l’Unione che si è venuta di nuovo delineando in questi ultimi mesi.

Dopo la lunga deriva neoliberista, già prima della pandemia l’Unione Europea aveva avviato un ripensamento generalizzato, rimettendo al centro la sua ispirazione originaria: benessere socialmente inclusivo, pace, diritti.

Ne era scaturita la rivitalizzazione del Pilastro sociale nel 2017 e l’avvio del Green Deal nel 2019, riprendendo quel profilo originale che solo può permettere di giocare un ruolo positivo nella globalizzazione selvaggia.

Poi però, complice la guerra della Russia contro l’Ucraina, nonostante la chiarezza di intenti del Next Generation EU, le politiche sociali e quelle energetico-climatiche hanno subito qualche indecisione e arretramento: non si è intaccata la concorrenza fiscale tra gli Stati membri, contrastando i paradisi fiscali che ancora esistono in Europa, sono stati sdoganati nella strategia climatica fonti energetiche come il metano e l’energia nucleare, nessun passo avanti nella lotta alla povertà.

Si è tornati alla vecchia impostazione su questioni dirimenti come quella dei brevetti sui vaccini, dove le scelte a vantaggio delle grandi aziende del farmaco e contro i Paesi poveri sono state inequivocabili.

La principale conseguenza è che le disuguaglianze sono aumentate nell’Unione a 15 e hanno smesso di diminuire nell’Unione a 27, mentre 60 milioni di abitanti dell’Ue hanno oggi un reddito inferiore al Duemila, 95 milioni sono a rischio di povertà ed esclusione sociale e la povertà dei minori è in crescita.

Queste tendenze negli ultimi mesi si sono accelerate in vari ambiti: nel contrasto alla crisi climatica e nella difesa della qualità e salubrità dell’ambiente, nella gestione dei flussi migratori, nel rilancio dell’austerity, nelle scelte a vantaggio dell’economia di guerra, recentemente rilanciate anche dall’ex premier Draghi, osannato da quasi tutte le parti politiche, e, ciliegina ultima, ma non per importanza, nel respingere la proposta di costituire una infrastruttura pubblica europea per farmaci, vaccini e ricerca biomedica, libera dai condizionamenti delle grandi multinazionali.

È in questo stop and go continuo, che si annidano le ragioni più profonde, anche astutamente strumentalizzate da una parte della politica, dello scetticismo che circonda l’Unione, in particolare in Italia, e che provoca disinteresse per il voto dell’8-9 giugno.

Secondo Eurobarometro, in un rilevamento che risale allo scorso ottobre, il 63% degli italiani ritiene che la propria voce a Bruxelles non conti, contro una media europea del 47%; la stessa appartenenza dell’Italia all’Ue è ritenuta positiva solo dal 43%, contro il 61% della media Ue; e così, solo per il 40% è davvero importante votare, contro il 47% della media Ue.

Le ragioni di tutte queste incertezze e contraddizioni stanno nel vulnus che registrano i Trattati, ovvero nell’eccessivo peso dato al Consiglio dei governi nazionali e alla regola dell’unanimità, che pur avendo ragioni storiche legittime, salvaguardare gli Stati più piccoli, si è dimostrata, con la crescita del valore politico dell’Ue, una catena al piede.

Ed il contrappeso rappresentato dall’eccesso di dirigismo della burocrazia europea, anche se spesso ispirato da buone intenzioni, si è poi dimostrato inefficace a superare le opposizioni politiche dei singoli governi, ed ha lasciato ampio spazio alla propaganda contro una Ue che decide sulla pelle dei popoli.

Il risultato? Le buone strategie, che vengono messe a punto a Bruxelles, si arenano o vengono stravolte quando si scontrano con la messa a terra che passa dalla contrattazione con i governi.

Il libro Quale Europa non si nasconde queste difficoltà, ma per ogni argomento trattato cerca di rintracciare gli spazi entro cui ci si può comunque muovere senza dover aspettare una futuribile Riforma dei Trattati, di là da venire!

Piuttosto la scelta è quella di individuare per ogni argomento le proposte concrete che possano far avanzare la giustizia ambientale e sociale, in una indispensabile strategia che, tenendo conto delle emergenze globali, della fase critica che stiamo attraversando e delle fragilità istituzionali dell’Unione, sappia mettere a terra misure concrete che contrastino le disuguaglianze così drammaticamente cresciute nell’era del liberismo.

Il filo rosso che attraversa i diversi capitoli si rintraccia nella necessità di promuovere e garantire, anche attraverso un diverso funzionamento delle istituzioni, la partecipazione alle politiche sia da parte di chi rappresenta i luoghi, in cui le politiche europee si concretizzano, sia da parte delle persone che nei luoghi lavorano e vivono.

Dialogo sociale, democrazia economica, forum deliberativi dei cittadini europei, possibilità di uso collettivo dei dati, monitoraggio delle politiche da parte delle associazioni della cittadinanza attiva sono gli ingredienti centrali di questa strategia, nel welfare come nell’equità di genere, nella dimensione macroeconomica e finanziaria come nella gestione della conoscenza, dei brevetti e dei dati digitali, nella transizione ecologica giusta come nel governo dei flussi migratori, nel lavoro come nella salute.

L’intento del ForumDD è contribuire a stimolare una riflessione pubblica sui temi su cui un candidato progressista dovrebbe impegnarsi per i cinque anni della legislatura. Il libro è l’occasione per attivare un ampio confronto nel Paese con un vero e proprio Viaggio in Italia con la testa in Europa, con dibattiti e confronti in 75 luoghi attraverso tutte le regioni italiane. Ma non è tutto.

La speranza è che il libro, durante la nuova legislatura, possa favorire il monitoraggio delle politiche ed il dialogo con i candidati eletti.

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