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430 anni fa nasceva il grande William Shakespeare

di Michele Genisio

- Fonte: Città Nuova

Le opere e i misteri del poeta e scrittore inglese William Shakespeare avvincono lettori e studiosi ancora oggi.

 

La statua di Shakespeare a Leicester Square, Londra, opera di Giovanni Fontana del 1874. Foto Di Lonpicman, WIkimedia Commons, CC BY-SA 3.0.

Il leggiadro Aprile, tutto vestito a festa, suscitava in ogni cosa un tale brio di gioventù, che rideva anche Saturno e con lui danzava”. Così cantava William Shakespeare, nel sonetto 98. E proprio in un leggiadro aprile di 430 anni fa nasceva lui, il Bardo, uno dei principali scrittori e poeti inglesi. Aprile è il suo mese. Tradizione vuole che sia nato il 23 aprile del 1564, e che sia morto il 23 aprile  del 1616. In suo onore il 23 aprile è diventato Giornata Mondiale del Libro. Ma c’è chi storce il naso.

Intanto a quel tempo in Inghilterra era in vigore il calendario giuliano, quindi secondo l’attuale calendario gregoriano il 23 aprile sarebbe il 3 maggio. Poi, la data esatta della sua nascita non è registrata nei documenti dell’epoca. E sulla sua morte si conosce pochissimo. Questi dettagli hanno dato origine a numerose teorie e dibattiti tra gli studiosi, tanto che qualcuno ha avanzato l’ipotesi che Shakespeare non sia mai esistito e che la sua figura sia stata creata in modo fittizio, unendo le opere di più autori.

Non c’è alcuna prova al riguardo. E in ogni caso, non sarebbe l’unico grande sottoposto a questo tipo di dubbio. In effetti Shakespeare lascia perplessi, perché è troppo grande. In poco più di vent’anni ha scritto trentasette opere teatrali, di cui diverse sono capolavori immortali. Machbeth è ancora oggi l’opera teatrale più rappresentata al mondo. Alcuni hanno calcolato che vada in scena sei volte al giorno, per un totale di 2190 volte in un anno.

Ma non solo teatro, Shakespeare ha scritto opere poetiche e 154 incantevoli sonetti. Si dice che abbia contribuito alla lingua inglese inventando tremila nuove parole e espressioni, come “molto rumore per nulla”. Shakespeare è stato uno dei più grandi conoscitori dell’animo umano, dei suoi abissi, ma anche delle sue leggerezze e generosità.

È vero che di Shakespeare si conosce poco. Ci sono anni oscuri nella sua vita. Dal 1585 al 1592, il periodo che va dal battesimo dei suoi gemelli fino al suo successo a Londra, solo silenzio, nessuna testimonianza. C’è chi dice che abbia insegnato, che abbia viaggiato in Italia, che abbia seguito una troupe teatrale itinerante. C’è chi sostiene che Shakespeare sia stato un “ricusante”, cioè un cattolico che, in piena epoca elisabettiana, viveva di nascosto la sua fede rifiutandosi di sottomettersi alla chiesa anglicana istituita da Enrico VIII. Ad avvalorare questa tesi viene portato il fatto che nel suo testamento lasciò quasi tutto alla figlia cattolica Susanna, e nulla ai membri protestanti della famiglia. Ma anche in questo caso, certezze non ce ne sono.

La grandezza di Shakespeare sembra rifiutarsi di rimanere confinata nella sua biografia, e di ergersi solamente nell’ambiente che gli è connaturale: le assi di legno del palcoscenico del suo teatro, il Globe Theatre di Londra. Chi ama il teatro, attore regista o autore, conosce l’emozione indescrivibile, il guizzo vitale che prende l’anima, quando si poggiano i piedi sulle assi di legno del palcoscenico. Lì Shakespeare ha creato i suoi capolavori. Incantando il suo pubblico, facendolo ridere con le commedie, turbandolo e sconvolgendolo con la spietata verità delle tragedie.

Non era un intellettuale Shakespeare. Era uno che sapeva parlare al cuore della sua gente, perché la conosceva. L’incredibile carriera di Shakespeare termina con un’opera singolare, La Tempesta. Nel saggio mago Prospero, protagonista di questo dramma, c’è molto dell’autore. C’è anche il suo lascito morale alle generazioni future. Nell’atto IV Prospero dice a sua figlia Miranda e al fidanzato Fernando, una frase che è diventata celeberrima: “We are such stuff as dreams are made on”, spesso  tradottaSiamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”.

Una sentenza sibillina, di interpretazione non univoca. Probabilmente il buon padre vuole invitare la figlia a non sottovalutare la complessità della vita, vuole invitarla a riflettere sulla natura sfuggente dell’esistenza umana che è il prodotto dell’insondabile forza creativa che governa l’universo. Che bisogna accettare. Di questa stessa forza fanno parte anche i sogni, a volte manifestazioni effimere e caotiche, a volte lampi di luce capaci di uno sguardo così penetrante nella realtà, che neppure lo stato di coscienza permette. Poiché siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, abbiamo la capacità di immaginare ciò che ancora non c’è, per far diventare i sogni realtà. Quelli buoni, si spera.

Anche il finale de La Tempesta è sorprendente. Nel V atto, Prospero-Shakespeare rinuncia all’arte magica che l’ha aiutato a eccellere, a governare e fare giustizia; assolve i suoi carnefici; libera lo spirito della Natura del bene, e anche quello del male, che si è pentito. Quindi si congeda dal pubblico con parole indimenticabili: “la mia fine è la disperazione, a meno che non sia salvato dalla preghiera, che va tanto a fondo da vincere la pietà e liberare dal peccato. Come voi per ogni colpa implorate il perdono, così la vostra indulgenza metta me in libertà”. C’è chi ha visto nella parola “indulgenza” – termine di luterana memoria, così caldo all’epoca – un segno della cattolicità di Shakespeare. Mah! È piuttosto singolare che, dopo essersi addentrato così tanto nelle profondità oscure e malvagie dell’animo umano, Shakespeare saluti il palcoscenico, e pochi anni dopo anche la vita, invocando e concedendo il perdono. E chiedendo di essere salvato da una preghiera.

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