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Italia > Noi due

Il pericolo della dipendenza nelle relazioni affettive

di Lucia Coco

- Fonte: Città Nuova

I genitori devono avere la forza di aiutare i figli ad essere autonomi. Relazioni basate sulla dipendenza non sono sane.

Genitori e figli
(Foto: Pixabay)

Scrive Anna Oliverio Ferraris in “Psicologia della paura”: “Autonomia e attaccamento sono processi relazionali antitetici e, seppure, compaiano evolutivamente in momenti diversi poggiano, in realtà, l’uno sull’altro… “. Si può essere autonomi e nello stesso tempo attaccati in un legame? Diceva Serena qualche giorno fa:  «Ho detto a mio figlio di andare e fare la sua strada e lui mi ha risposto che mi vuole bene, anche se va via. Io però gli ho detto: “Ma se vai via io soffro”». Ecco, in un’affermazione del genere quale messaggio avrà più presa sul figlio? Il permesso: “Puoi andare ed essere autonomo” oppure la seconda affermazione: “Se vai via, io soffro”? 

Sarà più pressante il bisogno di andare ed esplorare la vita o la necessità di prendersi cura del dolore della madre? Certo dipenderà dal grado di autonomia del figlio rispetto a quest’impasse. Serena avrebbe anche potuto non dire questa seconda frase, ma manifestare il suo dolore per la partenza del figlio in maniera non verbale, magari mostrando un viso rattristato o una voce incrinata dal pianto. Quale messaggio sarebbe stato più potente per il figlio? La rassicurazione verbale della madre o il dolore del suo volto? 

In un legame di attaccamento promuovere l’autonomia è difficile, ma è un compito ineludibile. Sappiamo molto bene dagli studi dello psicologo Bowlby come un attaccamento sicuro del bambino alla madre permette al figlio anche di staccarsi e di allontanarsi da lei senza il timore di ferirla, ma libero di andare per il mondo, consapevole delle sue radici, ma anche della sua capacità di pensarsi lontano da lei. Se qualcosa in questo processo di attaccamento non funziona, separarsi diventa impossibile e salutare una persona e lasciarla andare si trasforma in un’impresa titanica che genera depressione e annichilimento. 

Una coppia di fidanzati ha deciso di separarsi dopo un lungo periodo di relazioneA parte il dolore fisiologico connaturato ad ogni rottura di un legame significativo, l’angoscia di separazione che uno dei due membri della coppia ha sperimentato in maniera importante è stata l’occasione per avviare un percorso di autoriflessione rispetto a quanto la sua identità e il suo valore dipendessero dai legami che instaurava. 

Ma perché accade questo? Perché magari ho riposto il senso del mio valore, il senso della mia persona in quel legame e senza quel legame anche il mio valore, anche la mia identità sono fortemente minacciati. Perciò mi aggrappo con tutte le mie forze a quel legame e percepisco la separazione da questa figura di attaccamento come pericolosa e fortemente lesiva del mio benessere. 

Dipendere così tanto da un legame non è sano. Completamente differente è il concetto di interdipendenza. A tale riguardo scrive lo psicologo Erikson: «La vita non ha senso senza interdipendenza. Noi abbiamo bisogno gli uni degli altri». Ma cosa vuol dire avere bisogno gli uni degli altri? Io ho bisogno che l’altro mi riconosca come importante per lui per sentirmi io importante? Sappiamo che la psicologia ha ormai da tempo consolidato l’esperienza del riconoscimento come propedeutica per la definizione dell’identità personale. “Io esisto perché sono riconosciuto dall’altro”, ma la domanda forse a questo punto diventa: su cosa poggia il mio riconoscimento? Se io mi sento riconosciuto per il legame farò in modo di non perderlo mai… quel legame dice chi sono, mi qualifica e se lo perdo non sono più nessuno. 

Cosa scatena il panico di fronte alla prospettiva dell’abbandono, all’idea della rottura del legame? «Se lui mi lascia io non esisto più», diceva Tamara un po’ di tempo fa. Se la mia esistenza dipende dall’amore dell’altro, se il mio valore dipende dal fatto di essere importante per lui/lei, il rischio è il panico se questo legame si rompe. 

Si tratta quindi di fare un’analisi introspettiva accurata in cui esplorare come mai il nostro valore dipende totalmente dal fatto che l’altro ci riconosca come validi e come mai, se questo non accade, ci sentiamo completamente disperati.

Probabilmente anche l’ansia da separazione che si sperimenta in un legame fra adulti ha radici nella nostra infanzia. Gli studi sull’attaccamento dicono che laddove da bambini non si è avuta la certezza che il caregiver fosse disponibile a rispondere ad una richiesta di aiuto e per tale motivo l’esplorazione dell’ambiente circostante appariva incerta, esitante e connotata da ansia, da adulti si può mostrare insicurezza nell’esplorazione del mondo, ansia di abbandono, incapacità di sopportare distacchi prolungati, sfiducia nelle proprie capacità e la convinzione di non essere amabili. 

Scrive anche a questo riguardo la psicoterapeuta Anna Rita Verardo: «Il genitore percepisce il figlio come fragile e bisognoso di protezione e il figlio cresce con questa stessa percezione cercando costantemente… la vicinanza serrata ad una figura d’attaccamento».

Legarsi agli esseri umani è un’avventura meravigliosa che dà senso alla nostra vita in quanto è scritto nel nostro DNA il bisogno di attaccamento, ma allo stesso tempo riuscire a separarsi, se necessario, è un’esperienza con cui imparare a fare i conti. Sicuramente non è un’esperienza indolore, ma comunque arricchente. 

Ricordiamo al riguardo la poetica immagine del Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry nel suo dialogo con la volpe. «…. Se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…».

La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: «Per favore… addomesticami», disse. «Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina: “Ah! – disse la volpe – piangerò”.  “La colpa è tua – disse il piccolo principe – io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”, “è vero”, disse la volpe. “Ma piangerai!”, disse il piccolo principe. “È certo”, disse la volpe. “Ma allora che ci guadagni?”. “Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”». 

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