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The Bad Guy, disponibile su Prime Video

di Edoardo Zaccagnini

- Fonte: Città Nuova

Recensione sulla nuova serie streaming con Luigi Lo Cascio e Claudia Pandolfi

The bad guy
Gli attori Luigi Lo Cascio e Claudia Pandolfi alla conferenza stampa per la serie tv “The Bad Guy” al Torino Film Festival 2022 (Foto LaPresse)

Può una serie che ci ha incollati alla poltrona averci posto qualche dubbio sul finale? Può, dopo esserci piaciuta tanto, averci (un pizzico) infastiditi? La magnifica responsabile di questo gustoso dilemma è la roboante The Bad Guy: una serie tanto e insieme poco italiana, disponibile da qualche giorno su Prime Video in sei – pirotecnici, magnetici, sorprendenti – episodi di circa 50 minuti l’uno.

Partiamo dall’ampio piacere di una visione cominciata con la curiosità di un titolo inglese sovrapposto ai primi piani di Luigi Lo Cascio e Claudia Pandolfi, e terminata con una maratona di trame divorate, capace di farci familiarizzare in fretta con personaggi spiazzanti, saporiti e facilmente iconici come Nino Scotellaro, Salvatore Tracina, Mariano Suro, Luvi Bray e soprattutto Balduccio Remora, “emigrato in America. Del Sud!”. Non capita sempre – e non capita nemmeno spesso – di trovarsi di colpo immersi nella narrazione ed aver voglia solo di percorrerla ad ampie falcate. E quando questo accade non si può non considerare di valore quel racconto.

Con The Bad Guy va proprio così, e il motivo va cercato nella somma dei suoi (tanti) elementi: una cura formale che muove lo sguardo da Levante e Ponente, senza dimenticarsi mai dello Stivale, della Sicilia soprattutto; la capacità di inserire delicatamente (e in modo geniale) la moda del futuro (prossimo) distopico attraverso una sola, potente, sequenza: quella in cui un immaginario ponte di Messina crolla di colpo.

Questa parentesi fantascientifica, però, come del resto il generale passo poliglotta di The Bad Guy, è contrastato dal vintage di una colonna sonora che recupera la Mina di Se telefonando, il Franco Battiato di Bandiera bianca, il Lucio Dalla di Attenti al lupo e persino il Claudio Cecchetto di Gioca Jouer, tutti inseriti, a loro volta, in un juke box non privo di musica classica e di altro presente italiano, vedi l’affacciarsi improvviso sulla scena di Colapesce e Di Martino. C’è poi l’abilità di fondere la lezione – tutta seriale – di Breaking Bad (il Walter White che varca per necessità la linea della legge) a quelle classiche di Mattia Pascal ed Edmond Dantes (Il conte di Montecristo) con qualche spruzzata di Dott. Jekill e Mr. Hide. C’è il ripercorre, ribaltandola, deformandola e riplasmandola, la tradizione del “mafia movie” dando vita a una creatura che va oltre la denuncia, oltre la descrizione fascinosa dei mafiosi, oltre la loro messa in ridicolo in stile La mafia uccide solo d’estate.

Il già visto aleggia, accompagna, irrobustisce, ma rimane presenza inafferrabile, sfocata, come elemento di un catturante cortocircuito nel quale finiscono anche un film recente come Spaccaossa (per le presenze – validissime – di Vincenzo Pirrotta e Selene Caramazza) e persino Il traditore di Bellocchio, per la presenza del (sempre eccezionale) Fabrizio Ferracane e (soprattutto) per il Lo Cascio dal dialetto siciliano profondo che ricorda il (suo) Totuccio Contorno nel bel film su Buscetta.

In questa serie ottimamente diretta da Giancarlo Fontana e Giuseppe G. Stasi il realismo, il surreale e il grottesco convivono mentre sbocciano qua e là spunti tematici che potrebbero portare la serie verso una determinata direzione, ma poi rimangono lì, tra tormentoni, colpi di scena, ritmo incalzante, inquadrature pregevoli e qualche passaggio violento, come arbusti che colorano il paesaggio, come aromi che lubrificano il racconto: la retorica sulla memoria per le vittime di mafia attraverso le fiction, gli ecologisti che protestano, la solitudine degli uomini coraggiosi profondi nemici della mafia; tanti sentieri narrativi che riempiono la mente e complicano (piacevolmente) il già abbondante lavoro dello spettatore, da subito impegnato nel pedinamento e nello studio di questo Revenant siciliano: Nino Scotellaro, che nato giudice integerrimo, con la sua rinite cronica, la barba e il panciotto, capace ed ostinato a catturare il boss di cosa nostra Mariano Suro, si trova tradito, recluso, spogliato di ogni dignità, costretto a separarsi dall’amore di Luvi (Claudia Pandolfi) e poi, per sopravvivere, non può che farsi nutrire dai cattivi, dai mafiosi che combatteva.

E allora diventa lo sbarbato e arguto Balduccio Remora, senza più rinite, senza più panciotto e lentamente sempre più somigliante a loro. Ma davvero? E quanto? Abbracciando fino a che punto il male? Rimanendo del tutto dalla parte del bene? Difficile dirlo con certezza, perché dall’intelligenza e dalla forza di Nino Scotellaro puoi aspettarti di tutto, e del resto The Bad Guy (prodotta da Indigo film e scritta da Ludovica Rampoldi, Davide Serino e dallo stesso Giuseppe G. Stasi) gioca proprio sul non dare punti di riferimento, su un intrigante depistare, cavalcando l’onda di un osare, di uno sperimentare territori narrativi nuovi, provocata – o se non altro alimentata – dal fertile deragliamento di un film come Lo chiamavano Geeg Robot, ormai alcuni anni fa: capace di far capire al cinema italiano (e alla sua serialità) che se era possibile far vivere un supereroe a Tor Bella Monaca, allora si potevano fare tante altre cose.

Di certo The Bad Guy spinge su questo acceleratore, accorciando la distanza tra culture cinematografiche e impastando tanto materiale in un poderoso, ludico e articolato esercizio di stile. Azzardando anche nel rapporto con lo spettatore, ed ecco, alle ultime curve, la sensazione che si sia un pizzico esagerato con lui, quando, dopo averlo affamato di risposte, sia stato lasciato sul traguardo con un numero troppo esiguo di trame chiuse, obbligandolo, ancora provato dal vorace Binge watching, ad attendere immediatamente una (esageratamente programmatica) seconda stagione, per capire meglio il poco che già si è capito: in primis perché, chi ha tradito Nino Scotellaro, lo ha fatto.

Vanno bene i finali aperti, ci mancherebbe: in fondo la serialità ci gioca tantissimo. Ma qualche linea in più di tratto, se non per la chiusura del cerchio almeno per il disegno più delineato della figura narrata, sarebbe stata apprezzata. Del resto il patto tra autore e spettatore è basato su un delicato equilibrio tra ricevere e dare, altrimenti il secondo ha la sensazione troppo netta di sentirsi merce e decade la sospensione dell’incredulità. Ma può anche darsi che sia stata proprio la capacità immersiva di questo racconto a provocare in chi scrive il netto desiderio di volerne sapere di più, e allora torniamo ai meriti di questa serie particolarmente capace di creare attrazione.

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