Dopo un esordio molto duro nelle relazioni Usa-Arabia Saudita, centrato sulla presa di distanza di Biden dall’amministrazione Trump (che aveva invece un rapporto apparentemente idilliaco con i sauditi), il presidente statunitense sembra adesso obbligato dalle circostanze a fare un passo indietro. Dopo un anno e mezzo di pesanti accuse all’erede al trono, Mohammed bin Salman (MbS), e alla monarchia saudita, alla fine Biden ha dovuto in qualche modo piegarsi alla ricerca di un accordo, anche se la faccia va in qualche modo sempre salvata, a questi livelli. Dopo aver accusato MbS di essere il mandante dell’omicidio Khasoggi, dopo aver rimosso dalla lista dei terroristi i ribelli yemeniti houthi, annullato gli accordi sulle faraoniche forniture di armi firmati da Trump e ripreso i negoziati con gli iraniani (peraltro in stallo, ad essere ottimisti) sul programma nucleare, non deve essere stato facile per Biden riallacciare i rapporti con MbS e con gli alleati dei sauditi. Ma se non altro lo sta facendo.
Così Biden farà una visita ufficiale di 4 giorni in Medio Oriente dal 13 al 16 luglio prossimi: si recherà in Israele e Palestina, e subito dopo a Gedda per incontrare MbS e i leader di Egitto, Iraq e Giordania. Ma soprattutto i capi del Consiglio di cooperazione degli Stati del golfo Persico (Arabia saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Kuwait, Bahrein, Oman), vale a dire il 30% della produzione mondiale di petrolio.
Motivo principale: chiedere un ulteriore incremento dell’estrazione di petrolio per ridurne almeno in parte il prezzo, aumentato come conseguenza della guerra in Ucraina e delle sanzioni contro la Russia, e trattare sulle garanzie richieste (pretese?) in funzione anti-iraniana da sauditi, emiratini e alleati (compreso Israele, con tutti i distinguo possibili). In nome del petrolio e del suo potere.
Un recente Focus attualità di www.oasiscenter.eu dedicato a questo argomento, suggerisce, con un editoriale di C. Fontana, fra le altre, due interessanti chiavi di lettura, che pur essendo centrate sull’attualità di questi fatti, aprono ad una riflessione più ampia. Il primo contributo è di Steven Coock, esperto di politiche mediorientali e analista del think tank statunitense Council on Foreign Relations, che sintetizza così la necessità di Biden di cercare un accordo con i sauditi, nonostante tutto: “Biden potrebbe essere stato sincero nel suo desiderio di incorporare valori nella sua politica estera, ma la conclusione è che c’è poco che possa fare per costringere dei regimi autoritari… a rispettare i diritti umani, soprattutto quando questi regimi siedono su un mare di petrolio”.
Il secondo contributo è del britannico Janan Ganesh, editorialista politico del Financial Times: Biden – sostiene in sostanza Ganesh – fa bene ad andare in Arabia Saudita perché è controproducente definire (come ha fatto il presidente Usa solo qualche mese fa) la fase storica che stiamo vivendo come uno scontro tra democrazie e autocrazie… Così facendo, infatti, troppi Stati rientrerebbero nel novero delle autocrazie.
La riflessione ulteriore che suggerisco, a prescindere dagli autori citati, si muove attorno a queste due concezioni: quella di “costringere i regimi autoritari a rispettare i diritti umani” e quella di leggere la storia come uno “scontro tra democrazie e autocrazie”. Ma anche viceversa, se applicate alla visione opposta: cambia poco ai fini dei risultati se si ritiene che le democrazie alleate (come la Nato e/o l’Ue) violino i diritti nazionali e si legge la storia come uno scontro fra nazioni sovrane e poteri ritenuti pseudo-democratici.
Perché è evidente che a partire da entrambe queste concezioni c’è una sola prospettiva aperta, quella di difendere con la forza una “verità” indiscutibile. Che significa: con armi, guerra, dominio, potere. E quindi distruzione del nemico per legittima difesa e per un fine nobilissimo: l’affermazione di una verità che può essere soltanto o la mia o la tua. Aut-aut. Che sia per ingenuità, sincerità, interesse, partito preso, necessità di difesa, ipocrisia oppure odio: aut-aut. Anche se con dei limiti, anche senza ricorrere all’uso di armi nucleari ma “solo” alla deterrenza.
Ci può essere un altro modo di vivere da uomini che non siano queste esibizioni di potere? L’umanità ci sta provando da secoli, ma la differenza è che oggi la posta in gioco non riguarda “solo” la vita delle persone, ma è globale e planetaria. Per affermare i propri diritti, si negano non solo quelli degli altri ma anche quelli del pianeta. So che per molti affermo una patetica ingenuità, ma sarebbe così assurdo trasferire la competizione (dato che la natura umana sembra non poterne fare a meno) e le relative enormi risorse dalla produzione di armi allo sviluppo di fonti rinnovabili di energia?