I prossimi mesi autunnali (in Cile è appena iniziato l’autunno) saranno impegnativi e cruciali per la vita politica cilena. Dallo scorso 11 marzo si è insediato il nuovo governo di centrosinistra. L’obiettivo del presidente Gabriel Boric è quello di affrontare in tempi brevi alcuni nodi, cercando di essere all’altezza delle aspettative suscitate. Uno di questi nodi è la crisi migratoria scoppiata nel nord del Paese, dove ogni giorno decine di migranti cercano di entrare illegalmente nel Paese, molti dopo un rocambolesco viaggio dal Venezuela o dalla Colombia, nella maggior parte dei casi.
Il precedente governo di destra aveva agito in modo a dir poco passivo e con poca capacità di previsione, lasciando che il fenomeno si trasformasse in una situazione critica per le località alla frontiera con la Bolivia, intasate dalla presenza di migranti illegali.
L’altra patata bollente lasciata dalla precedente amministrazione è il mai risolto conflitto con le comunità mapuche dell’Araucania. Negli ultimi mesi si è registrata un’escalation violenta, nonostante lo stato d’eccezione costituzionale varie volte prorogato nella regione, e dunque nonostante la presenza dell’esercito che collabora pattugliando in varie località. Il precedente governo non ha speso molte energie per cercare di avanzare nel dialogo, come segnalano sindaci e i leader di varie comunità, assestandosi su posizioni legaliste che, in fondo, non intendevano riconoscere alla realtà mapuche la legittimità di una lotta per recuperare i territori sottratti ed il riconoscimento da parte dello stato di queste rivendicazioni.
Ne hanno approfittato settori estremisti, spesso di estrema sinistra, nostalgici di ogni ribellione armata. Un segnale di tale estremismo lo si è avuto durante la contestata visita nella regione della neo-ministra degli Interni, Izkya Siches, accolta a colpi d’arma da fuoco. Gli spari sono stati effettuati, è vero, da lontano, ma hanno comunque obbligato la comitiva ministeriale a ritirarsi dalla zona per ragioni di sicurezza. Forse ha giocato contro un’eccessiva voglia di dimostrare che era cambiata l’aria e la strategia di gestione del conflitto.
Si è certo anche esagerato inviando bei sei ministri nella zona, seguiti da giornalisti, un battage pubblicitario imprudente e inopportuno che ha fatto tornare tutti alla capitale con la coda tra le gambe. Ma è vero che a destra si fa una grande fatica ad accogliere una diversità che tra l’altro annovera un’ingiusta espropriazione di territori mai completamente riparata dai successivi governi. Anzi, con l’errore di tener sotto silenzio il problema.
Il presidente Boric ha chiaro che per fare la differenza nei confronti del “peggior governo della storia”, come è stato qualificato l’Esecutivo dell’ex presidente Sebastian Piñera, deve produrre risultati tangibili e nei primi cento giorni di gestione. Per questo insiste anche sulla proposta di elevare il salario minimo, di ridurre a 40 ore la settimana lavorativa (in genere i contratti prevedono 44 ed anche 48 ore settimanali) e si lavora alacremente ad una riforma tributaria che possa ridurre sensibilmente l’elevato – ed accresciuto durante la pandemia – livello di diseguaglianza che apre una profonda breccia tra la classe medio-alta e i poveri.
Forse l’esperienza negativa in Araucania potrà ottenere il frutto di un’azione più prudente e, soprattutto, umile. Ne occorre, e molta, di umiltà per lavorare davvero per il bene comune.