Dopo la difficilmente classificabile decisione, il 25 luglio scorso, del presidente tunisino Kais Saied di destituire il presidente del Consiglio, sciogliere il governo e assumerne i compiti, e poi di bloccare il Parlamento, la situazione politica è andata sempre più avviluppandosi senza a quanto pare trovare un reale punto di svolta, quello che Saied aveva fatto balenare con i suoi drastici interventi.
Negli ultimi sei mesi, il presidente ha nominato unilateralmente l’accademica Najla Bouden Romdhane come premier, ha sospeso la Costituzione ed annunciato per il prossimo luglio un referendum costituzionale. Ha anche dichiarato che il Parlamento resterà bloccato fino a nuove elezioni, annunciate per dicembre 2022, fra quasi un anno.
Tra dicembre e gennaio, inoltre, Saied ha approvato gli arresti, disposti dalla magistratura, di numerosi esponenti del partito di maggioranza relativa, Ennahda, vicino ai Fratelli Musulmani ma di orientamento islamista moderato, e dell’alleato partito Qalb Tounes, di stampo liberista e populista. In particolare, il 31 dicembre è stato arrestato Noureddine Bhairi, vicepresidente di Ennahda, con l’accusa, pare, di concessione illegale di passaporti a sospetti terroristi.
Il 5 gennaio scorso, poi, 19 personalità politiche sarebbero state incriminate per lobbyng e finanzimenti esteri di provenienza sconosciuta. Tra gli arrestati, posti ai domiciliari, ci sono il capo di Ennahda, e presidente del destituito Parlamento, Ghannouchi, l’ex presidente Marzouki, il capo di Qalb Tounes, Karoui, e l’ex ministro della Difesa, Zubaidi.
Nonostante le manifestazioni contro le iniziative di Saied, accusato di essere un “usurpatore delle libertà”, secondo alcuni sondaggi il presidente godrebbe ancora del sostegno di oltre il 70% della popolazione.
Ma le discusse prese di posizione di Saied non sono in realtà la causa dei problemi profondi della Tunisia, si potrebbe forse dire che rappresentano anzi una reazione (certamente discutibile) ad un malessere che viene da molto più lontano. In una recente intervista a France24, Sofiane Makhloufi, deputato di area progressista (non favorevole quindi né a Saied né ad Ennahda) ha in un certo modo messo il dito nella piaga: “Le priorità dei tunisini sono altrove: mentre le finanze statali sono sull’orlo del collasso, il Paese attraversa una crisi economica, sociale e finanziaria senza precedenti, Kais Saied preferisce una questione che, a quanto pare, gli sta a cuore da anni: fare una Costituzione su misura per lui”.
Il quadro politico che si era andato delineando dopo la famosa “rivoluzione dei gelsomini” del 2011 (ispiratrice delle primavere arabe) era stato certamente interessante e perfino esaltante, ma il Paese ha dovuto ben presto fare i conti con gli stessi numerosi problemi che gli oltre due decenni di dittatura (nello specifico quella di Ben Alì) avevano lasciato in eredità: soprattutto corruzione, politiche familiste e nepotiste.
Ennahda e i suoi governi, inizialmente accolti con entusiasmo, hanno in sostanza “piazzato” nella pubblica amministrazione i propri affiliati. E se gli appelli alla moralità non sono mancati, lo sforzo di affrontare i cambiamenti non si è visto. Aggiungendo il Covid (che nessuno ha saputo gestire) e il conseguente crollo del turismo, i risultati sono sotto gli occhi di tutti: il Pil è calato nel 2020 di quasi il 9% (un po’ recuperato nel 2021), il rapporto tra debito pubblico e Pil è oltre il 90%, la disoccupazione generale al 18%, e soprattutto la disoccupazione giovanile (e la Tunisia è un Paese di giovani) è salita oltre il 40%.
Questo peggioramento della situazione giovanile rispetto alla mancanza di lavoro (e di prospettive) si traduce, fra l’altro, in una maggiore fuga dal Paese. Negli anni scorsi molti giovani tunisini avevano ingrossato le fila delle milizie jihadiste. Oggi, lo raccontano le statistiche degli arrivi in Europa, i giovani tunisini sono ormai in cima ai numeri di Frontex 2021, dai quali emerge il “primato della rotta del Mediterraneo centrale”, vale a dire da Tunisia e Libia verso Italia e Malta, con più di 66 mila migranti (quasi il doppio rispetto al 2020). E fra essi i tunisini sono stati tra 15 e 16 mila (23%) in un solo anno.
Avrà forse un po’ di ragione il presidente Saied a voler cambiare le cose, è come lo fa che lascia perplessi. Data la vicinanza non solo geografica, forse anche l’Italia avrebbe bisogno di un approccio diverso con la Tunisia. Una strada potrebbe essere quella di attuare meno respingimenti e più cooperazione economica. Magari con un approccio win-win (io vinco-tu vinci), ma senza foraggiare la corruzione di entrambe le sponde. Meriterebbe farci più di un pensiero.