Il 20 ottobre 2011, dopo l’uccisione di Mu’ammar Gheddafi, il raìs guida della rivoluzione per 42 anni, il capo dell’allora Consiglio di transizione libico, Mahmoud Jibril, annunciò: “È tempo di dare vita a una nuova Libia unita, un popolo e un futuro”. Sono passati più di 10 anni da quella dichiarazione, ma quell’auspicio non sembra aver ancora trovato il suo spazio di realizzazione.
Ripercorrere le vicende di questi 10 anni di guerra di tutti contro tutti con le ingerenze di molti altri è piuttosto complicato. Ma il quadro sociale della Libia di fine 2021 è più che spezzettato. Pochi dati su tutti lasciano intravedere la situazione: la Libia di oggi è la collazione storicamente mai riuscita di tre regioni, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, che fin dai tempi degli Ottomani non riescono a stare insieme. In queste tre regioni vivono forse 7 milioni di libici (dato insicuro e molto fluttuante) che appartengono ad almeno 140 tribù. In compenso ci sono, a quanto pare, almeno 300 milizie armate che si contendono il controllo di parti più o meno grandi di territorio. Molte di queste milizie gestiscono poi anche numerosi traffici poco o per nulla leciti, a partire da quello di esseri umani. La cosa è ulteriormente complicata da svariate e intrecciate interferenze straniere: militari turchi e milizie armate mercenarie composte da ciadiani, sudanesi, siriani e russi, che fanno capo, e non è un mistero, ad Ankara, Mosca, Emirati Arabi, Egitto, eccetera.
Il collante primario e principale di questa miscela è ovviamente il petrolio. Le riserve di petrolio della Libia, le più cospicue di tutto il continente africano, sono calcolate in circa 48,4 miliardi di barili, e il petrolio rappresenta, com’è facile intuire, l’unica fonte di reddito della popolazione e di mantenimento delle milizie e degli apparati bellici.
In questo quadro, gli accordi di Ginevra, il vertice di Tunisi (ottobre-novembre 2020) e i passi successivi sostenuti dalle Nazioni unite in accordo con le parti in lotta, sono finora riusciti ad ottenere il cessate il fuoco, la nomina di un governo ad interim ed una roadmap per giungere ad una consultazione elettorale nazionale per l’elezione del presidente della Repubblica, con un primo turno previsto per il prossimo 24 dicembre in occasione del 70° anniversario dalla dichiarazione di indipendenza libica (uscita all’epoca da una complessa e pesante storia coloniale legata dal 1912 all’Italia). La roadmap prevede il secondo turno delle presidenziali e le elezioni legislative 52 giorni dopo, quindi verso metà febbraio 2022.
Ma il percorso di avvicinamento alla fatidica data del 24 dicembre si fa sempre più complicato. Tra le varie problematiche, uno degli ostacoli principali è la condizione posta dagli accordi per la fuoriuscita dal Paese delle milizie legate a potenze staniere. Che non hanno, né mai hanno avuto, nessuna intenzione di fuoriuscirsene.
L’altra questione complicata sono le regole per le candidature, che qualcuno accetta, altri distinguono, altri ancora rifiutano. Un gioco delle parti dove l’impressione è che nessuno rappresenti veramente se stesso e un programma politico, ma ogni candidato sia espressione di direttive provenienti da qualche altra parte, in una sorta di saga di candidati manciuriani (il riferimento è ad un famoso film del 2004 con Denzel Washington e Meryl Streep). Il problema è che i candidati alla presidenza libica, tra accettati, accettabili ma anche pretendenti e aspiranti senza titolo, sono quasi cento, 98 per la precisione. E in prospettiva sono oltre mille i candidati al Parlamento. Una vera folla.
Secondo un analista di al-Arabiya (grande emittente panaraba concorrente di al-Jazeera, con sede a Dubai e collegata ad investitori sauditi e del Golfo) la vera competizione, se si riuscirà a votare e molti altri se, sarà fra cinque nomi principali. Il primo è quello del premier ad interim Abdel Hamid al Dbeibah che si sarebbe guadagnato in pochi mesi un’ampia popolarità soprattutto nella provincia di Tripoli, ma anche in alcune città del sud. Il secondo nome sarebbe quello di Seif al Islam Gheddafi, il figlio secondogenito del dittatore libico, che raccoglierebbe consensi fra i nostalgici del vecchio regime di suo padre. Segue Il generalissimo Khalifa Haftar, capo autosospeso dell’Esercito libico di Bengasi appoggiato fra gli altri dai contractors russi del Gruppo Wagner. Nella cerchia dei cinque ci sono ancora il capo del cosiddetto parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, finora sostenitore di Haftar, e l’ex ministro degli Interni Fathi Bashagha, legato a Misurata e ritenuto in buoni rapporti con la Turchia e con la Fratellanza musulmana.
C’è solo da sperare che succeda qualcosa che rappresenti almeno un passo avanti rispetto all’attuale caos libico.