Diseguaglianze e politica. In un mondo che sembra sotto anestesia davanti all’ “inequità”, c’è ancora un luogo dove è possibile pensare di poter coniugare lo studio più rigoroso dell’economia con la passione civile. A Roma, nella facoltà di Economia della Sapienza, è viva e feconda la scuola di pensiero avviata da Federico Caffè. Non si può parlare di diseguaglianza senza interpellare Maurizio Franzini, professore ordinario di Politica Economica nella Sapienza, Università di Roma e coordinatore del “Menabò di Etica e Economia”. Porsi delle domande di senso sulla giustizia sociale permette di comprendere la fase attuale del nostro sistema economico. Parliamo di una situazione che risale al 2013 ed è illuminante per capire quanto è avvenuto nel frattempo.
I dati confermano la realtà: in Italia cresce la povertà.
I nostri livelli di povertà assoluta e relativa sono altissimi ma quello che si ignora abitualmente è che in Europa un quarto della popolazione è a rischio povertà. I dati Eurostat ci dicono che il 24,80 per cento della popolazione si trova nella condizione in cui basta anche una piccola avversità per passare da una condizione accettabile alla povertà insostenibile. Con questi parametri la percentuale raggiunge il 30 per cento in Italia e questa diseguaglianza crescente diventa un freno alla crescita e non un incentivo. Ce lo dicono alcuni lavori pubblicati di recente dall’ Ocse e dal Fondo monetario internazionale. Sono dati sconvolgenti che smentiscono il racconto prevalente delle firme dei grandi media, che tendono ancora a giustificare la bontà della società diseguale in base ai dogmi della teoria economica tradizionale secondo cui riducendo le diseguaglianze si abbassa la tensione alla crescita con la conseguenza che tutti stanno peggio. È invece dimostrato il contrario.
Si discute molto del reddito di cittadinanza, cosa ne pensa?
Non sono d’accordo con una misura da concedere a tutti indipendentemente dal reddito, ma ci vuole un reddito minimo da garantire a ognuno, una misura di carattere universale; nel senso che quando c’è qualcuno che versa in uno stato di bisogno, occorre intervenire permettendo a ciascuno di raggiungere una soglia minima di reddito. E questo obiettivo non si raggiunge, come confermano recenti studi, solo con le imposte e con la spesa sociale, perché l’origine della diseguaglianza risiede nel mercato. Abbiamo cioè disparità tra chi percepisce redditi di capitale e chi percepisce redditi da lavoro che tendono a crescere in misura abnorme, e crescono anche le disuguaglianze tra coloro che percepiscono redditi da lavoro, con l’effetto paradossale di avere persone che, pur lavorando, non possono superare la soglia di povertà. Pensare di risolvere questa disparità solo con la leva fiscale o con le prestazioni assistenziali e previdenziali è puramente illusorio. Occorrono politiche non solo redistributive ma anche preredistributive, anche perché non posso retribuire in modo sproporzionato lavoratori che fanno lo stesso lavoro e poi colmare parzialmente questa differenza con i trasferimenti dei soldi pubblici. Devo agire nel mercato per ridurre le disparità, eventualmente anche tramite l’autorità antitrust e quella per la concorrenza.
Ma ciò è possibile in un sistema economico come il nostro?
Tra le autorità esistenti per garantire la concorrenza in Europa, si potrebbe includere quello di evitare che si crei eccessiva diseguaglianza. Oggi un divario di reddito tra certe posizioni apicali in azienda e il dipendente medio raggiunge un rapporto di uno a mille, un valore che non ha giustificazione alcuna e può essere sottoposto a limite. Esistono tanti advisor nelle società che, se fossero davvero indipendenti, dovrebbero impedire questi eccessi irragionevoli e dannosi che gli stessi difensori dell’efficienza del libero mercato dovrebbero considerare tali perché non derivano da una sana concorrenza.
Sembra impossibile proporre al mercato delle regole dall’esterno…
Ogni proposta invece può essere avanzata, se ragionevole. Non si tratta di togliere i soldi ai ricchi ma di cambiare le regole che non funzionano. Ci vuole una visione complessiva. Nel testo scritto con il professor Mario Pianta (“Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle”), indichiamo in maniera organica i grandi interventi necessari: riequilibrare i rapporti capitale/lavoro con regole severe sulla finanza, contenere il capitalismo oligarchico colpendo i super redditi, contrastare l’individualizzazione delle condizioni economiche non frammentando i contratti e offrendo una seria istruzione pubblica, tornare a efficaci politiche di redistribuzione con l’introduzione del reddito minimo e la progressività delle imposte
Per portare avanti un tale progetto, bisognerebbe adottare regole efficaci nel mercato del lavoro internazionale.
È ovvio. Non possiamo, ad esempio, intrattenere dei rapporti commerciali con la Turchia se siamo certi dell’esistenza del lavoro minorile in quel Paese. E imporre una barriera doganale per questo motivo sarebbe perfettamente ammissibile. Esistono regole molto più prescrittive che vengono adottate dai Paesi occidentali per proteggere gli interessi di alcune industrie. Ad esempio questo avviene nel caso dei brevetti che sono molto protetti e in modo particolare nel settore farmaceutico. Si tratta spesso di misure di puro protezionismo per garantire rendite di posizione, introdotte dai sostenitori del liberismo.
Perché tale consapevolezza non è capace di suscitare reazioni oltre lo sdegno?
Il fenomeno è complesso perché non abbiamo una classe svantaggiata e una che ne trae vantaggio. La frammentazione è enorme fino all’individualizzazione. Esiste una minoranza di avvantaggiati ovviamente d’accordo con questo stato di cose, altri completamente sprovveduti e infine ci sono coloro che, pur coscienti, credono di poter superare la difficoltà da soli intercettando l’occasione giusta. In effetti è possibile diventare ricchi senza grandi sforzi, incontrando la persona giusta che aiuta a dare una svolta nella vita o avendo successo nel modo dello spettacolo ecc. Qualche decennio addietro vigeva una rigida separazione di classe che comunque induceva un senso di appartenenza a un gruppo sociale ben definito e favoriva la percezione delle cause sociali della diseguaglianza. Oggi siamo bombardati da messaggi tesi a confermare che la diseguaglianza fa bene alla mitica crescita dell’economia perché costituirebbe un potente incentivo alla competizione.
La realtà è diversa. Molte analisi scientifiche della percezione soggettiva della diseguaglianza mostrano una consapevolezza della disparità economica minore di quella effettiva mentre la possibilità di successo non è affatto elevata neanche negli Stati Uniti, dove la società è molto immobile perché le condizioni di origini familiari pesano tantissimo sul destino personale. Su questo errore di percezione della realtà si costruisce un messaggio politico che incide sull’impossibilità di mobilitare politicamente le persone. Inoltre, si afferma che il problema vero è la povertà e non la diseguaglianza. Come a dire: «Che vi importa se esiste una fetta di super ricchi»?
Come si ribalta questo luogo comune?
Dobbiamo distinguere la povertà dalla diseguaglianza. Supponiamo di avere una società senza poveri, con tutta la popolazione appena al di sopra della soglia della povertà e un 2 per cento di straricchi. Può essere una situazione accettabile? È evidente che non può funzionare perché avremmo un immenso potere economico e politico concentrato in pochissime mani. Il problema della povertà si risolve affrontando le diseguaglianze, mentre le diseguaglianze restano inaccettabili anche risolvendo teoricamente (ma non certo nella realtà) la povertà. Si è imposta inoltre una sorta di i indifferenza verso il modo in cui ci può arricchire. È diverso diventarlo per aver aiutato milioni di persone oppure grazie a monopoli o aiuti indebiti. Faccio sempre l’esempio di Bill Gates, molto bravo nello sviluppare la sua attività, ma diventato ricchissimo grazie a un monopolio che non gli era certo dovuto. È percezione dell’entità del patrimonio che si concentra in una sola persona e del reddito che può fruttare. Si è consapevoli che Gates ha un patrimonio di oltre 70 miliardi di dollari (140 mila miliardi delle vecchie lire) e che anche se fruttasse un misero 1% all’anno il suo rendimento sarebbe di due milioni di euro al giorno? Sono cifre pazzesche.
Ma se comunque crescono gli impoveriti, come mai non matura una risposta politica conseguente?
Perché con l’avanzare della diseguaglianza diminuisce la partecipazione politica e cresce l’astensionismo. A un cinico gestore del potere questa formula va benissimo perché i poveri scompaiono dall’orizzonte politico, assistiamo all’espulsione di qualcuno che non riesce a dar fastidio neanche con il voto. La sinistra ha prodotto poche idee e sembra aver fatto propria, in larga parte, la linea di Tony Blair e della cosiddetta “terza via” che in sostanza afferma: “Non è un mio problema l’esistenza dello straricco” e “quel che conta è garantire a tutti le stesse opportunità di partenza”. Praticamente è un modo per lavarsi le mani perché l’uguaglianza di opportunità di solito si fa coincidere con la possibilità di uguale istruzione (peraltro non realizzata) e invece, a parità di livello di formazione, continuano a pesare enormi diseguaglianze. A questo proposito, vedo come particolarmente inquietante la tendenza di alcune scuole superiori “pubbliche” ad attrarre solo i migliori talenti provenienti dalle scuole medie. Così chi nasce da una famiglia svantaggiata non ha neanche il modo per recuperare a meno che, miracolosamente, non dimostri subito di essere un talento. Ciò porta a estinguere lo spirito di collaborazione e accentuare la competizione e l’indifferenza verso gli altri. In questo meccanismo devastante chi è destinato a perdere, si sente così squalificato che non riesce neanche a ribellarsi.
Se, come pare, non sembra profilarsi all’orizzonte un soggetto politico capace di declinare lo sdegno verso la diseguaglianza, come mai continua a proporre le sue analisi?
A me non importa di avere qualcuno capace di mettere in pratica le misure di giustizia che propongo. È una polemica che porto avanti da tempo con i colleghi che si limitano a dire solo quello che il politico di turno sembra disposto a fare. Se abbiamo solo quest’ordine di misura dobbiamo solo rassegnarci all’esistente e invece io credo sia necessario insistere per discutere di obiettivi e modi di perseguirli, perché, come avviene in alcuni Paesi, ci si chieda esplicitamente: quali obiettivi voglio raggiungere? Quali sono le strade possibili e qual è la migliore? E poi, dopo aver compiuto la scelta, si valutino gli effetti raggiunti, pronti, se fosse il caso, a introdurre cambiamenti Si deve, poi, riconoscere che un certo mondo della sinistra è ancora debole nella proposta ragionevole di una società, come dire, “diseguale ma giusta”. Molti son partiti dalla pretesa insostenibile di voler tutti uguali per poi accontentarsi della pretesa e irrealizzata uguaglianza delle sole condizioni di partenza. Ma io sono fiducioso che insistendo in ciò che è giusto prima o poi si troverà la strada.
Estratto dal Dossier Povertà di Città Nuova