Scade il 16 dicembre il termine per la giunta regionale della Sardegna chiamata a dare il proprio via libera all’ampliamento della fabbrica Rwm controllata dalla multinazionale tedesca delle armi Rheinmetall AG.
Inaspettatamente, la presidente della Regione, Alessandra Todde, si è detta costretta, per ragioni tecnico amministrative, a dare il proprio assenso a tale crescita strutturale dell’insediamento produttivo di missili e bombe, proprio durante l’inaugurazione della conferenza euro-mediterranea promossa dall’ARCI in collaborazione con la stessa Regione per offrire una prospettiva di pace in controtendenza rispetto agli scenari di guerra sempre più preoccupanti.
La giunta Todde è l’esempio del “campo largo” che va dai 5Stelle, cui appartiene la presidente della giunta regionale, al Pd ed esprime una pluralità di forze politiche, tra cui il gruppo di “Sinistra futura” che contae 3 consiglieri e un assessore, ma non ha corrispondenti a livello nazionale.
Molto del consenso che ha permesso alla Todde di vincere le elezioni regionali battendo la coalizione di destra guidata da Christian Solinas (Psa eletto con la Lega) potrebbe sfaldarsi davanti a quello che appare un cedimento verso le ragioni della grande multinazionale delle armi trainata dal riarmo tedesco.
Tutte le associazioni che hanno già vinto un ricorso in Consiglio di Stato contro la crescita dell’insediamento della Rwm per mancanza di autorizzazioni ambientali, hanno lanciato un’istanza per far cambiare idea alla Todde contestando la tesi avanzata dalla stessa presidente, secondo cui, in caso di parere negativo alla Rwm, la giunta verrebbe commissariata. Per il 14 dicembre è prevista una manifestazione di protesta a Cagliari.
Sembra di assistere a scene di un film già scritto, con contenziosi giudiziari che fiaccano le forze di quella parte della società civile che cerca di costruire un’alternativa credibile per una seria conversione economica in grado di eliminare le cause del ricatto occupazionale.
È stato questo, infatti, uno degli obiettivi dell’incontro di Cagliari sul Mediterraneo, inteso non solo come un convegno di approfondimento, ma l’innesco di una piattaforma per dare forza ad un’economia di pace in grado di sottrarre il territorio alla seduzione della logica dell’industria bellica.
Un obiettivo ambizioso che richiederebbe la stessa energia e determinazione del “piano di rinascita” promosso in maniera diffusa negli anni 50 in quella pagina storica da approfondire, che fu l’assemblea generale del popolo sardo.
Ma il caso del Sulcis va liberato dalla sua riduzione a problema locale. Il “Comitato per la Riconversione RWM” sorto nel Sulcis Iglesiente non è un semplice gruppo di protesta, ma l’espressione di un’insorgenza morale che offre un modello alternativo per immaginare un’economia libera dalla guerra (War Free). È un pezzo consistente di società civile, plurale, nato per superare le “dichiarazioni di carattere teorico sulla pace” e sostenere un progetto concreto di risposta al ricatto occupazionale. Questa insorgenza morale e nonviolenta non nasce nel vuoto, ma da un’immagine precisa e insopportabile: le bombe prodotte dalla RWM viste partire, sotto gli occhi di tutti, dall’aeroporto di Cagliari.
Questa mobilitazione assume un valore ancora più profondo nello scenario globale attuale, caratterizzato da un “ritorno prepotente della guerra” e da una diffusa chiamata al riarmo. In un contesto che spinge alla rassegnazione, la resistenza del comitato dimostra che un pezzo di società si ribella alla logica del conflitto, non limitandosi a dire “no”, ma proponendo un’alternativa praticabile. Questa spinta sociale, tuttavia, si scontra con scelte strategiche nazionali che è necessario conoscere bene.
Il vuoto lasciato dal fallimento della politica industriale è il terreno fertile su cui prospera l’industria bellica come unica soluzione apparente. Come ha ricordato durante l’incontro dell’ARCI Fausto Durante, segretario regionale della Cgil, il ministro Adolfo Urso, a capo di un dicastero ribattezzato ministero delle Imprese e del Made in Italy, il 27 dicembre 2024 si presentò davanti ai cancelli della Eurallumina di Portovesme, proclamando solennemente che “il Sulcis, la Sardegna e l’Italia non avrebbero mai rinunciato” alle produzioni strategiche di piombo e zinco, anche a costo di trovare nuovi investitori.
Queste promesse, fatte anche per le vertenza storica della ex Alcoa, si sono scontrate con una realtà ben diversa. Negli ultimi mesi, lo stesso ministro ha comunicato ai sindacati che non esistono investitori alternativi. La conclusione del suo ragionamento è stata che l’unica prospettiva concreta per riassorbire i lavoratori in esubero era l’assunzione presso la fabbrica di armi RWM. Ma secondo Durante, scontrandosi anche con opinioni presenti nella sua organizzazione, «la fabbrica di armi di Domusnovas non può essere la risposta ai problemi occupazionali del territorio».
Il caso RWM non è un’eccezione, ma il sintomo di una precisa scelta strategica nazionale: la politica industriale italiana ha sistematicamente privilegiato il settore bellico a scapito di quello civile. Un esempio emblematico è il lavoro strategico che compie in questo senso la Fondazione Med-Or, presieduta da Marco Minniti come espressione diretta di Leonardo, la principale azienda di armi a controllo statale che ha contribuito a fare dell’Italia, secondo la classifica del Sipri di Stoccolma, il sesto Paese esportatore di armi al mondo.
L’indecisione sulla politica industriale lascia il Sulcis Iglesiente da solo a confrontarsi con la RWM come sua presunta unica opzione. Eppure, la storia offre precedenti di successo. Nel dopoguerra, gli operai della ex Pignone di Firenze occuparono, assieme al sindaco La Pira, la fabbrica e, con il supporto dell’ENI, la riconvertirono con successo da produzione bellica a civile, trasformandola in un’eccellenza mondiale. Questa vicenda, come la lotta che portò alla Legge 185/90 sul controllo del traffico di armi, insegna che il cambiamento è possibile quando i lavoratori diventano protagonisti.
La critica deve trasformarsi in un programma d’azione. Il fondamento è il principio della “democrazia economica“: i lavoratori devono poter decidere cosa, come e per chi produrre. Questo diritto è alla base della Legge 185 del 1990 sul commercio delle armi, nata dalla coscienza di operai che si rifiutarono di produrre armi per il Sudafrica dell’apartheid. Per riaffermare questo principio è necessario un risveglio sociale e culturale.
Gli strumenti e le aree di intervento per una politica industriale alternativa sono stati identificati all’interno della conferenza euromediterranea di Cagliari, ma richiedono un’azione politica immediata.
Occorre ad esempio, partire da un bilancio del “Piano Sulcis” per capire come sono state spese le risorse regionali, analizzando ostacoli e potenzialità. Indirizzare il “Just Transition Fund” e le risorse del PNRR verso progetti concreti di economia civile. Puntare poi alle bonifiche ambientali dei siti industriali in crisi come una straordinaria opportunità di lavoro e rigenerazione economica.
Occorre rilanciare il ruolo strategico del centro di ricerca CRS4, riportandolo alla sua missione originaria di guidare la transizione energetica. E invitare le università a creare centri di ricerca specifici sulla riconversione industriale, come fece a suo tempo l’Università Cattolica, per costruire l’infrastruttura intellettuale del cambiamento.
È necessario mettersi al lavoro “pancia a terra”, perché l’urgenza è massima. La vicenda del Sulcis Iglesiente, quindi, trascende i confini locali per diventare un “paradigma universale”. Interroga il modello di sviluppo dell’intero Paese, costringendolo a confrontarsi con le proprie contraddizioni. È necessario darsi dei tempi non infiniti, unire le forze in un “cronoprogramma condiviso” per dimostrare che un’economia che metta al centro la persona e l’ambiente, e non la guerra, non è un’utopia, ma “un futuro possibile”, come indicato dal recente seminario promosso dal Comitato riconversione ad Iglesias dal 14 al 15 novembre 2025.