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Mediterraneo tra guerra e pace, il caso Sardegna

di Carlo Cefaloni

- Fonte: Città Nuova

Carlo Cefaloni

Le alternative reali all’economia di guerra al centro di un dibattito con il vescovo Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei, e il responsabile regionale della Cgil, Fausto Durante, nel corso della conferenza euro-mediterranea per la pace promossa dall’Arci a Cagliari. Il contributo di Città Nuova nel sostegno alle istanze di conversione economica di WarFree.

Sardegna Foto Pixabay

L’Arci è una delle più grandi associazioni culturali e sociali esistenti in Italia, con una storia che affonda le sue radici nelle ottocentesche Società operaie di mutuo soccorso e delle Case del popolo. Fisiologicamente collegata con i movimenti e i partiti di sinistra, strutturata in comitati locali e regionali, ha espresso una sua autonomia di azione e pensiero, come dimostra il fatto che dal suo seno sono nate tante realtà con un percorso indipendente, come ad esempio l’associazione ecologista Legambiente.

Solo una conoscenza diretta permette di cogliere la vivacità culturale di un’associazione che è all’origine di tante iniziative diffuse sul territorio. Una sorta di scuola di formazione permanente, con una rete internazionale di realtà collegate, animata da figure radicate nel tessuto sociale come testimonia ad esempio la vita di Stefano Kovac, presidente di Arci Liguria, scomparso proprio in questi giorni.

Si spiega così la ricchezza del programma della Conferenza euromediterranea sulla pace che l’Arci ha organizzato a Cagliari dal 5 al 7 dicembre 2025.

La manifestazione dal titolo Nel Mare di mezzointende mettere in evidenza e rinsaldare i legami “tra le due sponde del Mediterraneo”, indicando la vicinanza tra l’Europa e il nord del continente africano in uno scenario segnato dal ritorno della guerra; annunciato dalla strage dei migranti che in questi anni hanno perso la vita nel tentativo di attraversare questo spazio marino che secondo una certa visione geopolitica è un “medio oceano” tra quello Pacifico e Atlantico, strategicamente decisivo negli equilibri di potere mondiale.

Che ruolo ha, oggi, in tale contesto, la Sardegna? Al di là della sua storia millenaria, complessa e affascinante, parliamo di un territorio di evidente bellezza, varietà e pregio, segnato tuttavia da un progressivo decremento demografico, con aree piegate da troppo tempo da una crisi economica che non si concilia con le potenzialità di una Regione a statuto speciale.

Tra i vari approfondimenti proposti dalla manifestazione, si colloca il panel su Economia e Pace previsto sabato 6 dicembre alle ore 18 con il contributo dell’arcivescovo di Cagliari mons. Giuseppe Baturi, il segretario regionale della Cgil Francesco Durante e il sottoscritto, coordinati da Franco Uda, presidente di Arci nord Sardegna e tra i protagonisti del tavolo pace sardo.

Non può essere un incontro di carattere astratto. La questione della produzione bellica nell’area del Sulcis Iglesiente pone alcune questioni che travalicano le dimensioni locali. Città Nuova ha dato voce in questi anni alla opposizione nonviolenta e creativa del Comitato riconversione Rwm che si è costituito a partire dal 2017 per mettere in discussione la presenza di una fabbrica di armi (Rwm Italia) controllata dalla multinazionale tedesca Rheinmetall AG con sede a Düsseldorf.

Il caso ha destato ciclicamente l’attenzione mediatica per la palese presenza, presso porto e aeroporto di Cagliari, di componenti di missili e bombe in partenza per l’Arabia Saudita, Paese a capo di una coalizione militare impegnata nel conflitto in Yemen che dura almeno dal 2015. Riad è una meta ambita per il sistema degli armamenti mondiali. È qui che si celebra ogni due anni il World Defense Show (il prossimo a febbraio 2026), la più grande manifestazione di sistemi d’arma, che attira imprese del settore e rappresentanti dei governi da ogni latitudine.

Produzione Rheinmetall AG EPA/HANNIBAL HANSCHKE

Nel 2018 l’allora presidente dell’Aiad, Guido Crosetto, presentò nella sala stampa della Camera un dossier redatto dal Centro Studi Machiavelli che sosteneva l’importanza di coprire con le nostre industrie di alto livello il mercato saudita interessato dai progetti di sviluppo della Saudi Vision 2030. A chi sollevò, in quella circostanza, delle obiezioni su tale tesi a causa della guerra in Yemen e della violazione dei diritti umani in quel Paese (era recente il caso dell’uccisione del giornalista del Washington Post) fu risposto che la guerra purtroppo non dipendeva da noi e che comunque altri, e in particolare le industrie francesi, avrebbero comunque assicurato, in caso di assenza di quelle italiane, la fornitura di armi.

Grazie a un’ampia mobilitazione, non solo italiana grazie a Rete italiana pace e disarmo, a sostegno dell’istanza del Comitato riconversione Rwm, inaspettatamente la Camera ha votato delle mozioni a favore dell’applicazione rigorosa della legge 185 del 1990 con riferimento al caso dell’invio di missili e bombe  ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, coinvolti nelle operazioni belliche in Yemen. In forza di tale voto, si è arrivati con il secondo governo Conte a negare l’autorizzazione al trasporto di armi verso tali destinazioni.  Uno stop che è stato rimosso prima verso gli EAU e poi verso l’Arabia Saudita il 31 maggio 2023 con il decreto Made in Italy per “l’attenuazione del rischio” dell’uso di tali armi verso la popolazione civile.

Tale decisione è arrivata in un clima generale di assuefazione verso lo scenario bellico, dopo il passaggio epocale del 24 febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina che ha impresso una forte accelerazione alla corsa al riarmo già in essere nel mondo, con la parte predominante degli Usa e dei Paesi occidentali. In poche ore la Germania guidata dal cancelliere socialdemocratico Scholz ha varato un ingente investimento di 100 miliardi di euro per i sistemi d’arma, fino a manifestare l’intenzione con il cancelliere della Cdu, Merz, di diventare la maggior forza armata europea, chiedendo di condividere con Francia e Gran Bretagna le scelte in campo di armi nucleari.

La Rheinmetall si pone tra i maggiori beneficiari di tali scelte intese a “trasformare l’economia europea in assetto di guerra” come dimostra l’acquisizione di alcuni siti produttivi della Volkswagen.

La multinazionale tedesca delle armi è interessata ad acquisizioni, sinergie e alleanze con le altre industrie europee come l’italiana Leonardo, che è controllata al 30% dallo Stato anche se una parte del capitale è nelle mani di investitori stranieri.

EPA/FAZRY ISMAIL

Come ha fatto notare l’analista Giorgio Beretta nell’intervista a Città Nuova, con riferimento alla controllata della Rheinmetall in Italia, «la  Rwm ha acquisito dalla compagnia israeliana Uvision la licenza di produzione dei droni “kamikaze” Hero 30, non solo per il mercato italiano ma per l’intera Europa».

Si comprende perciò il motivo che spinge la direzione Rwm ad ampliare lo stabilimento collocato nei comuni di Iglesias e Domusnovas nonostante i vincoli ambientali accertati dal Consiglio di Stato. Sono fortissime le spinte verso la presidente della Regione Alessandra Todde ad andare oltre tali ostacoli in ragione della crescita produttiva di una società destinata ad attrarre nuova occupazione in base all’assioma che più armi voglia dire più posti di lavoro. Una tesi facilmente contestabile secondo studi approfonditi in materia, ma che comporterebbe comunque l’auspicio dell’aumento costante della richiesta di un mercato legato alla guerra. 

Un certo tipo di informazione ha preferito in questi anni registrare le opinioni di alcuni residenti posti di fronte al dilemma del tipo di produzione da accettare, come un male necessario in vista del lavoro in una provincia impoverita da mancate o errate scelte di politica economica e industriale che chiamano in causa la classe dirigente non solo locale ma almeno nazionale.

Nell’incontro con i lavoratori a Cagliari nel 2013, davanti ad una crisi evidenziata dai casi delle multinazionali fuggite dall’Isola dopo aver distrutto il territorio, papa Francesco ha detto che «il lavoro è motivo di riscatto e non di ricatto». Gli operai, citando Di Vittorio, non devono “togliersi il cappello” davanti al padrone ringraziandolo per il posto che gli concede ma devono poter “decidere cosa, come e per chi produrre”. È una questione di dignità e di democrazia economica, senza la quale quella parlamentare rischia di venir percepita come una farsa.

Manifestazione a Roma degli operai sardi dell’Alcoa 2012 ANSA/GUIDO MONTANI

Il caso Rwm evidenzia il dilemma di un ricatto occupazionale ben contestualizzato nello studio delle sociologhe Sabrina Perra e Maria Letizia Pruna dell’Università di Cagliari. Nella sua essenza costituisce un paradigma del modo attuale in cui un consiglio di amministrazione di una lontana società transnazionale decide il destino di una comunità territoriale impoverita facendola diventare una rotella di un ingranaggio che trasporta armi verso una petromonarchia impegnata in una guerra che interessa lo Yemen, il Paese più povero del Golfo Persico.

Solitamente l’opinione pubblica è persuasa da quel pensiero unico che papa Leone, rivolgendosi agli abitanti di Lampedusa (un’altra isola!), ha definito il cedimento alla “globalizzazione dell’indifferenza”. La percezione, cioè, di non poter far nulla per cambiare questo mondo che è in mano a poteri prevalenti, anche se mossi da logiche autodistruttive.

Contro tale tentazione si muove quella parte della società civile che avverte la responsabilità di resistere anche in minoranza e cerca di aprire strade nuove. Dal Comitato riconversione Rwm è nata ad esempio la rete delle imprese WarFree, federate dal patto di promuovere un’economia disarmata capace di quella conversione ecologica integrale che mette al centro le persone e l’ambiente. Tale realtà è una componente decisiva del Laboratorio nazionale per la riconversione economica di pace che ha tenuto una sessione ad Iglesias il 14 e 15 novembre.

Non si tratta, infatti, di una buona prassi circoscritta a gruppi marginali, ma di un criterio che deve muovere una politica industriale chiamata a compiere scelte strutturali con le risorse esistenti.

Se è un esercizio virtuoso chiedere, come fanno gli azioni critici di Banca etica, agli investitori di Rheinmetall di orientare diversamente le loro scelte, è invece prioritario mettere in discussione l’indirizzo complessivo di Leonardo in forza del capitale pubblico prevalente che impone di seguire le stesse finalità previste per la libera iniziativa economica privata dall’articolo 41 della Costituzione italiana.

Se a orientare la decisione è  la cabina di regia della Fondazione Med Or che fa del Mediterraneo la base per una proiezione del comparto delle armi, Leonardo continuerà nella dismissione di aziende del comparto civile dal forte impatto occupazionale a favore del rafforzamento della filiera bellica.

Seguendo questa logica appare inevitabile la formazione di un distretto industriale tra Rheinmetall e Leonardo con le sue controllate.

Concretamente vuol dire che tutto sarà deciso da come verranno spesi i fondi del Pnrr e in particolare il Just Transition Fund previsto dall’Unione Europea per le aree più fragili come il Sulcis e l’ex Ilva di Taranto.

La programmazione di una bonifica dei siti inquinati da una errata industrializzazione è una necessità, per liberare il territorio da nuove servitù e creare occupazione con effetti positivi nell’economia.

Si tratta di fare un bilancio del Piano Sulcis a livello regionale, per capire in quale direzione e finalità si è mosso.

Occorre capire il ruolo che può compiere il campo della ricerca universitaria se non indirizzata alle priorità dettate dalle strategie attuali di Leonardo.

Così come è decisivo il tipo di contributo che va richiesto al CRS4 – Centro di Ricerca, Sviluppo e Studi Superiori in Sardegna – un centro di ricerca interdisciplinare fondato nel 1990 dalla Regione Autonoma della Sardegna in base all’originaria visione del Nobel Carlo Rubbia di puntare sull’energia solare.

Un progetto arenatosi come vediamo oggi tra le polemiche sulle pale eoliche e i progetti dei metanodotti.

Non questioni astratte quindi. Recentemente il segretario regionale della Cgil in Sardegna, Fausto Durante, ha declinato l’indirizzo nazionale della sua organizzazione sindacale per affermare che «il futuro dell’industria nel Sulcis non può essere affidato alle produzioni per le attività militari svolte dalla Rwm. Lo diciamo perché questo appare essere lo scenario che propone il ministro Urso dopo i vari confronti avvenuti a livello governativo tra settembre e ottobre in riferimento alla situazione di Eurallumina, Sider Alloys, Portovesme Srl e indotto Sulcis».

Monsignor Baturi è il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, che recentemente ha votato all’unanimità una mozione intesa a favorire una pace non fondata sulle armi ma “disarmata e disarmante”. L’ufficio nazionale di pastorale sociale della Cei ha fatto il giro di alcuni porti italiani, da Genova a Trieste, per sostenere i lavoratori che rifiutano di caricare armi sulle navi dirette nei Paesi coinvolti in guerra.  

In definitiva è in gioco il destino della Sardegna e quindi dell’Italia, sospesa tra il consolidarsi come piattaforma logistica di guerra nel Mediterraneo oppure un ponte di pace, come diceva Giorgio La Pira, su questo mare crocevia di tre continenti.

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