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Papa Leone, «Libano, rialzati!»

di Michele Zanzucchi

- Fonte: Città Nuova

Michele Zanzucchi, autore di Città Nuova

Neanche 48 ore di visita nella Terra dei cedri per un papa che non cessa di invocare un mondo di pace, pacificato e pacificante. Una tregua nell’interminabile crisi, o un inizio di rinascita?

Fedeli in attesa di papa Leone in visita alla tomba di san Charbel Makluf nel monastero di San Marone ad Annaya, in Libano, il 1° dicembre 2025.ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Provenendo da una Turchia musulmana e in minima parte ortodossa, il pontefice è arrivato in un Libano che invece vive di minoranze: maronita e sunnita e sciita e ortodossa e drusa e armena e alawita, un caleidoscopio di 18 confessioni religiose riconosciute nella Costituzione. Un Libano oggi diviso come mai, non solo per motivi politici, ma anche religiosi e soprattutto economici e sociali. Una situazione complessa come poche altre al mondo, per un Paese che aveva fatto proprio della complessità armonizzata il suo orizzonte.

L’avanzare in ordine sparso attuale, la frammentazione del Paese è frutto in primo luogo dello stato di sopravvivenza in cui il Libano è ridotto dalle varie guerre subite, dalla governance corrotta e da un sistema di “democrazia confessionale” che nei fatti è diventata una “spartizione della torta” del potere economico e politico, che spesso si serve anche dei leader religiosi per i suoi fini. Non c’è in Libano un sistema bancario credibile; la giustizia è aleatoria; la legge è un’opinione troppo spesso; le gerarchie religiose, potentissime, spesso hanno dimenticato le loro scritture per gestire il loro piccolo o grande potere; le forze migliori, quelle giovani, cercano fortuna all’estero; lo stato di guerra è generale, con Hezbollah che controlla militarmente gran parte del sud del Paese, e Israele che bombarda a suo piacimento. Dov’è quel “messaggio” che, secondo Giovanni Paolo II, in visita nel 1997, era il Libano? Sembra che invece la notte sia scesa sul Paese del latte e del miele di biblica memoria.

Nelle ore precedenti l’arrivo del pontefice, le vie d’accesso a Beirut vengono ricoperte di foto di papa Prevost, le strade vengono asfaltate, i palazzi di rappresentanza ricoperte di luminarie, i militari ripitturano le loro garitte, il traffico si fa caotico, le televisioni lasciano spazio a critiche talvolta violente a un clero che sarebbe lontano dal popolo, ma ancor più cercano di capire il «papa misterioso», che si spera porti un po’ di speranza a un popolo tramortito. Quando chiedi alla gente della strada se incontrerà il papa in una delle sue tappe, ti senti rispondere che no, che non si può far niente per il Libano, che i preti sono lontani dal popolo, che il papa non ha preso posizione in modo deciso nella crisi di Gaza, che che che.

A dire il vero, nel volo da Istanbul verso Beirut, papa Prevost pronuncia le sole “parole politiche” del viaggio, riaffermando la visione cattolica della vicenda israelo-palestinese: « La Santa Sede pubblicamente appoggia la proposta di una soluzione dei due Stati. Sappiamo tutti che in questo momento ancora Israele non accetta questa soluzione, ma la vediamo come unica soluzione che potrebbe offrire una soluzione al conflitto. Noi siamo anche amici di Israele e cerchiamo con le due parti di essere una voce mediatrice che possa aiutare ad avvicinarci a una soluzione con giustizia per tutti».

Alla fine non pochi parteciperanno alla messa finale. Le prime tappe – all’aeroporto, al palazzo presidenziale, alla collina del santo tanto amato, Mar Charbel, alla piazza dei martiri per l’incontro interreligioso – non sembrano accompagnate da una folla immensa. Piove, tra l’altro.

La visita di papa Prevost sembra cioè suonare in tono minore, che non vuol dire poco sentito, poco partecipato, poco festoso; ma il contesto non permette di suonare uno spartito in tono maggiore, i trionfalismi sono vietati, qui tutti si aspettano la spallata finale d’Israele contro gli Hezbollah – circola la voce che avverrà all’indomani della visita del papa –, le banche non aprono che uno spiraglio alla possibilità per la classe media di recuperare i depositi bancari bloccati dal 2019, scoppiano alterchi per nulla, e la meglio gioventù se n’è andata all’estero, troppi uomini della politica e della religione sembrano insensibili al grido della povera gente, quasi metà della popolazione secondo l’Onu.

Anche l’appuntamento alla tenda di piazza dei martiri, per l’incontro ecumenico e interreligioso, non si svolge pomposamente, manco un grande schermo è stato attrezzato, la gente (poca peraltro) è trattenuta a 500 metri dalla tenda trasparente, tra il monumento agli eroi della patria, opera dello scultore parmigiano Mazzacurati, la moschea voluta dal premier ucciso Rafik Hariri, e la cattedrale maronita di San Giorgio, in un tramonto splendente come se ne possono vedere solo qui in Libano, terrazza del Levante aperta al Ponente.

Un prete ortodosso, che circola nei dintorni, si chiede se sia stato giusto mettere assieme cristiani non legati a Roma e musulmani e drusi. «Credo – aggiunge un musulmano con la moglie velata – che non si sia voluto dare nessuna occasione di contestazione alle frange militarizzate». Le formule del dialogo interreligioso sono farcite di rispetto e di buoni auspici, anche se dicono forse poco, ma il fatto di incontrarsi è già un evento. Le parole indicano l’orizzonte della fraternità universale, qui in Libano eminentemente abramitica. Peccato che non si sia voluto trasformare quest’incontro di élite in un incontro di popolo.

La scena si anima a Bkerke, al patriarcato maronita – scenografia da popolo ricco e pacifico – per l’incontro serale coi 20 mila giovani che con le loro coreografie, con le loro parole, coi loro giochi di luci vogliono comunicare al papa la tragedia che stanno vivendo, ma anche la sottile speranza che dimora nei loro cuori. Il papa li riconforta, ma li invita anche a non abbandonare la battaglia, e non cessa di indicare il Padre come origine della pace e il Figlio come esempio di pace vissuta. E cita abbondantemente i suoi predecessori per indicare la continuità col Vangelo e con la Tradizione del messaggio cristiano.

Per la messa finale al Water Front non c’è la folla del 2019, quando un sussulto di spirito civico spinse in piazza 200 mila libanesi e forse ancor più. Allora era una folla cosmopolita e rivoluzionaria, interreligiosa e interculturale. Oggi, alla messa al lungomare c’è indubbiamente meno gente – comunque le 100 mila unità abbondanti vengono raggiunte –, quasi tutti cattolici: maroniti, greco-cattolici, siro-cattolici, latini… Non c’è l’entusiasmo della thaoura, la rivoluzione del 2019, ma c’è l’atmosfera contenuta propria del mondo cattolico. Scendendo da Achrafieh verso il lungomare, dal quartiere cristiano per eccellenza, non c’è gran folla: papà, mamme, bambini, qualche vecchio, qualche giovane, un prete, molte filippine ed etiopi, le donne di servizio, un flusso calmo e continuo, un po’ reticente, forse con un sottile timore che qualcosa di brutto possa accadere.

La messa comincia, orchestra e cori giganteschi, amplificazione da concerto rock, file interminabili di minibus, entusiasmo contenuto, vescovi e cardinali schierati con paramenti bianchi nuovi di zecca, al papa è riservato il viola, tiare e copricapi della tradizione orientale, mentre la gente assiste nella confusione ordinata tipica del Levante.

Il papa è comunque un messaggio, non solo il Libano, Le autorità sono in prima fila, quelle cristiane, quelle di altre fedi sono assenti. Questa visita s’è rivelata innanzitutto una visita alla comunità cattolica, con pochi ampliamenti ad altre comunità. Forse non era il tempo propizio per una visita di dialogo ad ampio raggio, come fu quella di Wojtyla nel 1997.

Questo è il tempo dell’emergenza in cui le comunità si chiudono a riccio per istinto di conservazione comprensibile. Deve passare la notte della guerra, debbono tacere le armi per riprendere il cammino della riconciliazione, del perdono, del dialogo, della pace. Leone XIV ha saputo comunque dare speranza, spingere a lasciare aperto il cuore, a non mettere i lucchetti alla propria mente impegnata solo ad escogitare i metodi per sopravvivere. Un invito a preti e vescovi, a essere realmente vicini al popolo di Dio, ai più poveri, ai diseredati, alle nuove classi di indigenza determinati dalla crisi economica senza mercedes e paramenti milionari. Pellegrini con il Cristo.

Una giovane donna, evidentemente commossa, sintetizza così la visita papale: «Papa Leone ha svelato a me stessa la pace che abita nel mio cuore. Come ha detto il pontefice, dobbiamo educarci alla pace, e mai perdere il coraggio».

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