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Perché i poveri si astengono o votano per i ricchi? Risponde Becchetti

a cura di Carlo Cefaloni

- Fonte: Città Nuova

Carlo Cefaloni

Dialogo a tutto campo con uno degli esponenti più autorevoli dell’economia civile sui capitoli decisivi in campo politico. Dagli ostacoli alla transizione ecologica alle pressioni per il ritorno dell’energia nucleare, dalle polemiche su Jeffry Sachs allo scenario italiano dell’opzione Ruffini, fino allo strano caso di un’egemonia culturale che legittima e sostiene l’ingiustizia sociale

Leonardo Becchetti. Credit: ANSA/FABIO FRUSTACI

L’economista Leonardo Becchetti è una delle voci più autorevoli nel panorama del pensiero economico italiano, noto per la sua capacità di unire il rigore accademico a un profondo e generoso impegno civile. È il promotore di Next e direttore scientifico del Festival nazionale dell’economia civile che si svolge ogni anno a Firenze.

In questa intervista cerchiamo di fare il punto su tanti capitoli aperti dalla sfida che appare sempre più in salita per un’economia più giusta, al tempo della presidenza Trump e della crisi del multilateralismo che conduce allo scontro bellico, distraendo dagli obiettivi comuni di una transizione ecologica non più rimandabile.

Il mondo dell’economia civile è ormai riconosciuto a livello accademico e nel dibattito culturale, ma non sembra incidere a livello politico, dove non crea consenso la lotta contro le diseguaglianze. Perché?

Ci sono due mondi chiave da conquistare che sono la comunicazione e la politica. Parto dalla comunicazione, perché la considero un “terreno minato”. La comunicazione social, così come è costruita oggi, con il quasi monopolio di piattaforme come X, favorisce strutturalmente una certa parte politica, la destra estrema espressa da Elon Musk e dai super ricchi. I gestori dei social sanno che la polarizzazione e il conflitto aumentano le interazioni e, di conseguenza, i profitti. I loro algoritmi sono progettati per spingere le persone a schierarsi, non a partecipare costruttivamente. Per questo, serve una riforma radicale.

Che tipo di proposte si possono avanzare per frenare tale potere invasivo?

Credo che sia necessario imporre di apparire sui social con nome e cognome, per uscire da un’anarchia dove bot (programmi automatizzati che simulano l’attività umana sui social media, ndr) e profili falsi hanno la meglio. Dobbiamo conquistare questo campo, perché chi vince la battaglia della comunicazione, alla fine vince anche la battaglia politica.

E per quanto riguarda l’arena politica? Come può l’economia civile influenzare concretamente le istituzioni e le leggi?

In politica vige una “divisione del lavoro”, come in una squadra di calcio dove c’è il portiere, il difensore e l’attaccante. Ci sono persone che hanno la vocazione per la leadership politica, per l’impegno diretto nelle istituzioni. Nel nostro mondo non mancano queste figure; anzi, ci sono già esempi importanti di “campioni dell’economia civile” a livello locale e regionale, come il sindaco di Udine Alberto De Toni o la presidente della Regione Umbria Stefania Proietti. Il punto, però, è soprattutto culturale. La mia metafora è quella della cultura greca che ha conquistato il mondo latino non con le armi, ma culturalmente. Allo stesso modo, lo “spartito” dell’economia civile – personalista, relazionale, attento al bene comune – deve conquistare culturalmente il mondo della politica. L’obiettivo non è fondare un partito, ma rendere questi principi il quadro di riferimento bipartisan con cui valutare le policy. È quello, ad esempio, che cerca di fare la Rete di Trieste nata tra alcuni amministratori locali durante la settimana sociale dei cattolici in Italia. Da parte mia ho pensato di dare il mio contributo anche alla nascita di Comunità Democratica, promossa da Graziano Delrio e altri, per dare espressione ad una cultura riformista all’interno del Pd.

Qual è lo scopo di queste reti?

La Rete di Trieste è una realtà molto trasversale, che opera tramite una chat condivisa, il cui scopo non è creare un nuovo partito, ma “far vincere lo spartito dell’economia civile” promuovendo, in modo bipartisan, avanzamenti politici concreti.

Ad esempio?

Penso alla proposta di riforma della Costituzione avanzata da ASviS e all’introduzione del principio di impatto intergenerazionale delle leggi o all’amministrazione condivisa. Comunità Democratica, invece, è una rete che facilita il dialogo tra politici – in particolare dell’area riformista e cattolica del Pd – e la società civile. L’idea, a cui partecipa anche Carlo Borgomeo, è creare un ponte, sostenendo anche figure “federatrici” come Paolo Ruffini, per rafforzare il confronto tra chi opera nelle istituzioni e chi resta attivo nella società.

Ruffini col suo movimento Più uno è la figura designata per federare l’area riformista di centrosinistra diversa dal Pd?

Diciamo che è uno dei possibili federatori assieme ad altre figure che stanno emergendo.

Ma quali sono i contenuti di questa linea politica? Ad esempio per quanto riguarda la transizione ecologica esistono forti interessi che boicottano le Conferenze mondiali sul clima come quella ultima svoltasi in Brasile. Che fare?

Credo che, come visto proprio a Belem, la strategia giusta sia quella della “cooperazione rafforzata”. È inutile e impossibile cercare di ottenere un consenso universale. Quando un gruppo di 80 Paesi, come accaduto nella COP 30, dichiara di voler andare avanti per conto proprio, indica la strada giusta. Bisogna creare un nocciolo duro di nazioni volenterose che accelerino la transizione, sfruttando le tecnologie disponibili e i vantaggi di mercato. Questo gruppo può dimostrare concretamente agli altri i benefici di questo percorso, anziché rimanere bloccati in negoziati infiniti.

In Italia c’è una forte pressione per il ritorno al nucleare. Cosa ne pensa nel merito?

Lo ritengo una scelta sostanzialmente inutile per vari motivi. Primo tra tutti la questione dei tempi: per costruire una nuova centrale nucleare servono, come minimo, dieci anni, un orizzonte temporale in cui l’Italia può tranquillamente raggiungere il 100% di energia elettrica da fonti rinnovabili. Occorre poi non vanificare i progressi già fatti: oggi siamo già in Italia tra il 45% e il 49% di elettricità da rinnovabili, con un obiettivo del 63% al 2030. Altri Paesi europei come Norvegia, Svezia e Danimarca sono già oltre il 90%.

E allora come si spiega lo schieramento crescente verso l’opzione dell’energia nucleare in Italia?

In definitiva, si delinea uno scontro tra due paradigmi: da un lato, un modello energetico centralizzato e gestito da pochi grandi attori —analogo a quello fossile — e, dall’altro, una “rivoluzione democratica” in cui milioni di cittadini e imprese diventano autoproduttori di energia. È ingenuo pensare ad un mondo senza attori forti nella rete e nella produzione con grandi impianti, ma il grado di democratizzazione e di partecipazione nel sistema dei tanti piccoli sarà un fattore molto importante.

Quali sono, allora, le reali potenzialità e gli ostacoli per le rinnovabili in Italia?

La nostra dipendenza dai combustibili fossili ha causato le due peggiori crisi economiche degli ultimi 50 anni: l’inflazione degli anni ’70 e quella post-Covid. La transizione non è solo ecologica, è una transizione geopolitica verso l’indipendenza energetica e bollette più basse. Il potenziale è enorme, ma ci sono contraddizioni. Il governo da un lato fa cose positive, come le aste per i contratti e gli investimenti di Terna sulla rete. Dall’altro, crea ostacoli burocratici come il decreto aree idonee. L’assurdo è che, secondo gli ultimi dati di Terna, ci sono 340 GW di progetti rinnovabili (in prevalenza fotovoltaico) depositati e in attesa di approvazione, a fronte di un fabbisogno di circa 10 GW all’anno. È un rigore a porta vuota che non si vuole battere.

Come valuta la strategia della Commissione europea che parla della necessaria trasformazione della nostra economia in assetto di guerra?

Realisticamente credo che l’obiettivo migliore a cui possiamo aspirare oggi sia tornare a una “situazione di guerra fredda e di deterrenza”. Questo significa, innanzitutto, finire la guerra e cristallizzare i confini attuali in modo credibile. Bisogna creare un equilibrio stabile per porre fine a una guerra permanente che non fa altro che alimentare la domanda di spesa militare. Da una situazione di pace, seppur “fredda”, si possono poi riavviare processi di disarmo. In quest’ottica, vedrei persino favorevolmente un’iniziativa di Trump, se portasse a questo risultato. Finché c’è la guerra e la paura, si dà un assist fortissimo a chi vuole aumentare le spese militari.

Lei ha spesso dialogato e promosso iniziative assieme a Jeffrey Sachs, il famoso economista della Columbia University che è molto critico sulla politica della NATO post-Gorbaciov, attirandosi l’accusa di essere filo-putinista. Cosa ne pensa nel merito? 

Condivido abbastanza la critica di Sachs. Il suo argomento più efficace è l’analogia: cosa succederebbe se la Russia installasse missili in Messico? Non credo che Washington lo accetterebbe. Non abbiamo tenuto conto a sufficienza della particolarità che l’Ucraina rappresenta per la Russia. Forse una soluzione che garantisse la neutralità del Paese e un’ampia autonomia per il Donbas, come avvenuto con il nostro Alto Adige, avrebbe potuto evitare la guerra. Questo si lega a un fallimento più ampio: la “medicina drastica” delle privatizzazioni shock applicata alla Russia post-sovietica, che non ha portato alla democrazia ma ha creato una nuova classe di oligarchi, ponendo le basi per l’ascesa di Putin.

Un problema enorme della nostra economia è il dossier storico irrisolto dell’ex ILVA. Qual è la sua analisi di questa vertenza e perché non si è mai trovata una soluzione?

L’ILVA risente di un “peccato originale”. Negli anni ’60 si è costruito un impianto siderurgico a ciclo integrale attaccato a un centro urbano, una cosa oggi impensabile. Contrariamente a quanto si possa credere, l’acciaio in Italia si fa e si fa bene: le acciaierie di Brescia e Udine, come Arvedi, sono aziende straordinarie, a emissioni zero, che lavorano su nicchie tecnologiche e non usano il ciclo integrale. L’unica via di sopravvivenza per l’ILVA è un ridimensionamento, passando ai forni elettrici. Questo, però, implica una significativa riduzione della manodopera. È qui che non si è mai trovata la quadra, perché si è generato uno “scontro dei massimalismi” tra la necessità di una riconversione sostenibile e la difesa dei livelli occupazionali che possono essere assicurati investendo in altre settori.

Scelte strategiche che si declinano con una politica economica coerente. A tal proposito che giudizio dà della recente legge finanziaria?

Ci troviamo davanti alla classica “coperta corta” dei pochi soldi disponibili che non accontentano nessuno. Ci sono alcuni elementi positivi accanto a mancanze evidenti. Un governo di sinistra, a mio avviso, non avrebbe fatto cose straordinariamente diverse, forse avrebbe investito di più sulla transizione ecologica. Tra i punti positivi c’è l’ottima reputazione finanziaria dell’Italia, che ha ridotto il costo del debito e il sostegno alla contrattazione di secondo livello promuovendo l’accordo tra imprese e sindacati. Sono, invece, scarsi gli investimenti sulla transizione ecologica, mentre basterebbe poco per sbloccare i progetti in attesa. Restano insufficienti le risorse per la sanità, ma questa per questioni strutturali da risolvere rischia di restare un “pozzo senza fondo”.

È uno degli aspetti che fa crescere la disuguaglianza. Esistono dati che confermano tale analisi?

La questione è semplice e allo stesso tempo drammatica. La ricchezza finanziaria investita in borsa cresce mediamente del 7-8% all’anno. Nello stesso periodo, i redditi da lavoro hanno perso potere d’acquisto a causa dell’inflazione. Questo ha fatto esplodere la distanza tra chi possiede risparmi e patrimoni e chi non ne ha. La disuguaglianza di ricchezza si autoalimenta a un ritmo molto più veloce di quella di reddito, creando fratture sociali sempre più profonde.

Citando il Nobel Stiglitz e le proposte di Oxfam, lei evidenzia un paradosso: la grande maggioranza degli elettori non sostiene politiche redistributive, come una piccola tassa patrimoniale, che andrebbero a loro vantaggio. Come si spiega?

Come già detto la spiegazione ha due cause principali. La prima è una comunicazione molto abile nel creare consenso attorno ai super-ricchi e dissenso verso le patrimoniali, imponendo una narrazione dominante. È paradossale che una proposta come quella di Oxfam – una tassa minima del 2% sui grandi patrimoni, che non intaccherebbe nemmeno la loro crescita – non sia sostenuta dal 99,5% degli elettori che ne beneficerebbero. La seconda causa risiede nei meccanismi di finanziamento della politica, che orientano le decisioni verso gli interessi dei grandi donatori.

A questo si aggiunge il “grande vulnus” democratico di un astensionismo al 50%. Che fare?

L’’incapacità di affrontare la disuguaglianza di ricchezza è la conseguenza diretta di una battaglia culturale e comunicativa che finora è stata persa. Occorre una presa di coscienza strategica, perché la sfida per un’economia più giusta si vince prima sul terreno delle idee, per poi tradursi in azione politica coerente.

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