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La dura vita della scienza nell’America di Trump

di Chiara Andreola

Persistono le controversie sulle posizioni dell’amministrazione repubblicana, e in particolare del suo segretario alla Salute, considerate antiscientifiche. Mentre la ricerca arranca

Il presidente Usa Donald Trump e, sullo sfondo, Robert Kennedy, alla conferenza stampa del 22 settembre sull’autismo. Foto Ansa/ EPA/FRANCIS CHUNG / POOL

A suscitare l’ultima polemica è stata la modifica apportata alla sezione “Sicurezza dei vaccini” del sito del CDC (Center for Disease Control, più o meno l’equivalente del nostro Istituto Superiore di Sanità degli Stati Uniti), per la quale il segretario alla Salute Kennedy si è pubblicamente assunto la responsabilità: alla voce “autismo e vaccini”, la pagine ora recita che «l’affermazione che i vaccini non causano autismo non è supportata dalla scienza perché non ci sono studi che hanno escluso questa possibilità. Studi a sostegno di questo legame sono stati ignorati dalle autorità sanitarie. Il HHS [l’equivalente del ministero della Sanità, ndr] ha avviato una valutazione complessiva sulla cause dell’autismo, tra cui ricerche su plausibili meccanismi biologici e potenziali connessioni di causa».

Per quanto Kennedy sia un noto “free vax” e sostenitore del legame tra autismo e vaccini (nonché tra paracetamolo e autismo, poi frettolosamente smentito dopo la levata di scudi del mondo scientifico), e avesse già annunciato la volontà di investire in ricerca in questo campo, questo cambiamento – rapidamente segnalato sia sui media che sui social – ha fatto molto scalpore: è stato infatti visto come un’indebita intrusione della politica in un organismo che dovrebbe basarsi sulla scienza, non sulle personali convinzioni del segretario alla Salute in carica.

Le associazioni di categoria dei medici hanno subito reagito facendo notare che già esistono numerosi studi che confermano l’insussistenza del legame tra vaccini e autismo; che quelli che affermano il contrario non sono stati “ignorati”, ma molto banalmente scartati perché non considerati validi; e che la ricerca medica non può funzionare “provando dei negativi”, ossia escludendo in generale la possibilità che qualcosa accada. Altrimenti, ha osservato ironicamente qualcuno, poiché tutti coloro che si sono ammalati di cancro hanno bevuto acqua, dovremmo anche fare degli studi che escludano la possibilità che l’acqua provochi il cancro (che è cosa diversa dal provare il fatto che lo provochi).

Questo è però solo l’ultimo tassello di una questione più vasta che riguarda le politiche sanitarie e la ricerca scientifica negli Stati Uniti, fronti su cui l’amministrazione Trump si è distinta per le controversie suscitate.

Innanzitutto, si diceva, le politiche sanitarie: gli enti come il CDC – la cui direttrice si è dimessa – hanno visto nell’ultimo anno una serie di licenziamenti, volontari o meno, e di sostituzione delle figure apicali con persone magari prive di un curriculum che la avrebbe accreditate per quella posizione, ma note per essere vicine al segretario Kennedy.

Il tutto mentre l’Affordable Care Act (il sistema di assistenza sanitaria voluto da Obama), che Trump non intende continuare a portare avanti, è al centro della battaglia politica per come questo verrebbe modificato: l’idea di Trump è di eliminare il sistema assicurativo calmierato introdotto dal suo predecessore, per dare i sussidi direttamente alle persone al di sotto di un certo reddito perché negozino loro stesse il proprio piano assicurativo. Cosa che lascerebbe però mano libera alle assicurazioni in quanto all’ammontare dei premi stessi, che già schizzerebbero verso l’alto (fino anche a raddoppiare per i soggetti anziani o con patologie, che potrebbero anche vedersi negato il rinnovo) a partire dal 2026 se l’ACA, che scade con il 2025, non venisse rinnovato. Secondo diversi osservatori questo potrebbe assestare un colpo al consenso di Trump, dato che molti di quegli americani che hanno votato per lui perché fiduciosi che sarebbe stato capace di migliorare le condizioni dei lavoratori più poveri si appoggiano proprio a questi sussidi.

La vicenda è ancora in corso, ma già con le modifiche attualmente apportate in merito ai requisiti per accedere ai sussidi sanitari e i tagli a questi ultimi la CNN calcola che siano state circa 10 milioni le persone che hanno perso la propria copertura sanitaria. È da ricordare peraltro che, stando ai dati Oms, gli Usa sono tra i Paesi occidentali con la più bassa aspettativa di vita (78 anni contro gli 84 dell’Italia) e con la più alta mortalità infantile (5,61 su 1000 nati vivi contro i 2,5 dell’Italia) e materna (21 decessi su 100.000 parti, contro gli 8,3 dell’Italia), e in questo gioca un ruolo chiave la difficoltà di accesso alle cure per chi non dispone di una buona assicurazione sanitaria.

Poi c’è il capitolo ricerca, di cui avevamo già parlato su cittanuova.it lo scorso febbraio, e la cui situazione non è significativamente cambiata da allora: tagli ai fondi e limitazioni all’operato dei ricercatori hanno già portato, secondo l’American Association for the Advancement of Science, centinaia di ricercatori a cercare di trasferirsi all’estero. Secondo dati recentemente pubblicati dal New York Times, i cosiddetti “finanziamenti competitivi” per i bandi di ricerca dell’Istituto Nazionale di Sanità sono attualmente più bassi del 40% rispetto alla media dei dieci anni precedenti.

A varare programmi per accogliere ricercatori e ricerche è stata l’Unione Europea – con il pacchetto “Choose Europe for Science”, una dotazione di 500 milioni di euro per il triennio 2025-2027 destinata ad attrarre ricercatori stranieri, semplificare i visti scientifici e migliorare la mobilità intra-UE -, i singoli Paesi europei (ad esempio l’Austria con 35 borse di studio da 500.000 euro ciascuna, e la Spagna bandi per 1 milione di euro a progetto con 135 milioni di euro stanziati in tre anni), e finanche le singole università del Vecchio Continente; ma anche e soprattutto la Cina, attuale “grande avversaria” degli Usa sul fronte economico e tecnologico, che ha addirittura recentemente istituito un visto apposito che snellisce le procedure di immigrazione per chi vuole andare nel Paese a fare ricerca (oltre ad incentivi economici per i cinesi che tornano in patria dopo aver studiato negli Usa).

Secondo la rivista Nature, nel mese di marzo 2025 (momento in cui le politiche trumpiane in questo settore hanno preso forma) le candidature di ricercatori Usa per posizioni al di fuori dal Paese sono cresciute del 60%, mentre sono diminuite del 30% quelle di chi intende recarsi a fare ricerca negli Usa, e di una pari percentuale sono aumentati i flussi verso appunto la Cina; mentre il 75% degli intervistati in un’indagine ad hoc ha affermato di valutare di lasciare gli Usa.

Cosa facile a dirsi e meno a farsi, naturalmente: difficile ricominciare da zero altrove, trasferendo una ricerca che si era – spesso per diversi anni, e finanche per più “generazioni” di ricercatori – basata su un certo laboratorio e sul lavoro di un certo gruppo, e magari in un luogo che non dispone di strutture e di conoscenze analoghe in quello specifico settore. Insomma, non basta ricreare la ricerca che si stava facendo, ma serve anche tutto l’ambiente che la consenta: il che significa che non per tutti i filoni di ricerca “tagliati” si riuscirà a trovare casa altrove, con ripercussioni a livello internazionale sull’avanzamento delle conoscenze in campo sanitario e tecnologico. Secondo la rivista JAMA, per ora è “solo” 1 1 progetto di ricerca su 30 ad essere stato fermato; ma si tratta di stime ancora provvisorie.

Comprensibile dunque che l’attenzione di anche del resto del mondo sia puntata anche a quanto sta accadendo in questo campo negli Usa.

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