Usata spesso in maniera strumentale per relativizzare la tragedia di Gaza, la guerra in Sudan non smuove l’attenzione dei media principali e dell’opinione pubblica.
Quest’ultima non ha certo scuse, perché al tempo di internet è possibile, se si vuole, accedere a fonti libere e indipendenti come ad esempio Nigrizia, il mensile e sito web dei comboniani. I missionari, già in marzo 2025, hanno lanciato un accorato appello alla classe politica italiana, assieme alla Comunità di Sant’Egidio e a Medici senza Frontiere, a prendere posizione e intervenire concretamente per fermare la crisi umanitaria più grave del pianeta, secondo l’Onu, che si sta consumano in questo Paese africano che non è affatto dimenticato perché ricco di oro e petrolio.
Il 4 e 5 novembre una rappresentanza degli estensori dell’appello ha dapprima tenuto una conferenza stampa alla Camera e poi è stata ricevuta dalla commissione Esteri della Camera dei deputati. Con quali risultati? Lo abbiamo chiesto a fratel Antonio Soffientini, missionario comboniano, che ha fatto parte della delegazione.
Fratel Antonio, la scorsa settimana siete stati in delegazione a Roma per accendere un faro sulla situazione in Sudan. Secondo lei, perché esiste questo cono d’ombra su una tragedia di tali proporzioni? È a causa degli interessi coinvolti, delle filiere di ingiustizia o delle protezioni internazionali?
La situazione di el-Fasher, capitale del Darfur settentrionale sotto assedio fino alla conquista da parte delle Rapid Support Forces di Mohamed Hamdan Dagalo (Hemetti), è simile a quella di Gaza. La violenza e la sofferenza civile sono identiche, se non peggiori. La ragione di questa disparità di attenzione risiede in una percezione radicata e fuorviante: l’idea dell’Africa come “qualcosa di lontano”, e dei suoi conflitti come semplici “guerre tribali”, quasi un fenomeno anacronistico e inevitabile.
Questa narrazione, tuttavia, serve a mascherare la vera natura del conflitto. La guerra in Sudan, sebbene combattuta da sudanesi, non serve gli interessi del popolo sudanese. Al contrario, è funzionale agli interessi di attori esterni, primi fra tutti gli Emirati Arabi Uniti, che dal Darfur estraggono oro e petrolio, lucrando enormemente sulle condizioni di instabilità.
Non si tratta tanto di una “guerra dimenticata”, quanto di una guerra che “vogliamo dimenticare”. La ragione di questa amnesia selettiva è il nostro stesso coinvolgimento, diretto o indiretto, negli equilibri economici e politici che la alimentano.
Ha menzionato i nostri interessi. Qual è stata la parte di responsabilità dell’Italia?
Parto da un fatto storico preciso e noto a tutti: durante il governo Renzi, tra il 2016 e il 2017, l’Italia ha fornito fondi per circa 20-30 milioni di euro e addestramento militare alle milizie che, di lì a poco, si sarebbero consolidate nelle Rapid Support Forces (RSF), oggi in lotta contro l’esercito regolare sudanese. L’obiettivo, all’epoca, era quello di “esternalizzare il controllo delle frontiere” per arginare i flussi migratori verso l’Europa.
La guerra attuale è intrinsecamente legata al tema dei migranti e alla paura, sempre presente in Europa, di nuove ondate di profughi provenienti dalla rotta libica. Milioni di sfollati sudanesi premono sui confini, e la gestione di questa potenziale crisi umanitaria e migratoria condiziona le scelte politiche occidentali.
Ma non si può obiettare che l’addestramento, a suo tempo, di tali truppe non può essere collegato con la strage attuale che ha radici interne?
Io partirei dal fatto che l’Italia ha contribuito a creare e finanziare le milizie RSF per un obiettivo prettamente europeo: il controllo dei flussi migratori. Di conseguenza, il “mostro” che oggi devasta il Sudan è stato armato, in parte, per servire i “nostri” interessi. In questo conflitto il “nemico” non è un’entità chiara e distante. In una certa misura, “siamo noi”. Dietro le manovre di attori regionali come gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto, si celano ancora, probabilmente, le decisioni e gli interessi dell’Occidente. Questa ammissione di corresponsabilità storica impone una domanda cruciale: cosa si può fare, oggi, per invertire la rotta e passare dalla colpa all’azione?
Ammesso che si arrivi a tale ammissione di colpa, quali sono le vostre richieste concrete? Quali azioni state portando avanti dopo la visita a Roma?
La strategia della delegazione si muove su più livelli, adattandosi all’urgenza della situazione sul campo. La richiesta più immediata, portata a Roma a causa della drammaticità del momento, è una sola, cioè promuovere un intervento umanitario immediato: la priorità assoluta è salvare vite umane nella tragica situazione di el-Fasher, garantendo corridoi sicuri per gli aiuti.
Accanto a questa emergenza, la delegazione continua a portare avanti due richieste cruciali per una soluzione a lungo termine. Prima di tutto imporre il controllo e l’embargo sulle armi: una misura indispensabile per fermare il flusso di armamenti che alimenta quotidianamente il massacro. E poi ampliare il diritto d’asilo. È necessario, cioè, allertare il governo italiano sulla necessità di prepararsi ad accogliere i richiedenti asilo sudanesi, allargando le maglie della protezione internazionale.
Deve muoversi solo l’Italia?
La nostra strategia di azione non si ferma certo a Roma. L’obiettivo è portare la questione al Parlamento Europeo a Bruxelles, per darle una dimensione politica più ampia. In questo percorso, un alleato chiave è Marco Tarquinio, ex direttore di Avvenire, la cui massima risuona come un monito e una guida: “Seguite la via delle armi e capirete chi c’è dietro questa guerra”.
In linea con questo principio, si sta cercando una collaborazione più stretta con organizzazioni specializzate come Rete Italiana Pace e Disarmo. Ma chiediamo il sostegno anche di associazioni e movimenti presenti nelle sedi istituzionali europee.
Rete italiana pace e disarmo ha, infatti, ripreso e rilanciato il vostro appello. Ma in che modo si può essere più efficaci?
Un obiettivo molto utile è quello di mappare con precisione la filiera delle armi, per rendere le denunce più circostanziate ed efficaci. Nonostante le difficoltà, alcuni piccoli risultati sono già stati ottenuti: il governo italiano ha manifestato l’intenzione di inviare aiuti umanitari e, fatto significativo, l’ambasciatore italiano ha preso contatto diretto con i missionari comboniani presenti in Sudan.
Ma questa strategia di advocacy si scontra con uno scenario geopolitico complesso, dove gli equilibri di potere e gli interessi economici rendono ogni azione diplomatica estremamente delicata.
Quali sono le parti in campo? Chi sostiene il governo sudanese? E quale ruolo esercitano gli Emirati Arabi Uniti?
Il sostegno al governo sudanese sembra arrivare da potenze come la Russia e la Cina, sebbene non vi siano conferme ufficiali. L’obiettivo strategico che sembra accomunare molti degli attori esterni è quello di arrivare a una “situazione stile Libia”: un Paese frammentato, diviso in territori controllati da diverse fazioni. Una simile divisione renderebbe molto più semplice gestire e sfruttare le risorse locali, dai minerali preziosi al controllo dei flussi di merci e persone.
In questo scenario, la posizione degli Emirati Arabi Uniti è quanto mai centrale perché da un lato finanziano attivamente la guerra e vendono armi alle milizie RSF in cambio dell’oro e del petrolio estratti illegalmente dal Darfur. Dall’altro, sono un partner strategico dell’Italia, tanto da essere il primo paese ad aver aderito pienamente al Piano Mattei del governo. Si comprende perciò perché è difficile esercitare pressioni politiche efficaci; il prezzo più alto tuttavia viene pagato dalla popolazione civile, la cui sofferenza quotidiana fatica a trovare spazio nei bollettini ufficiali.
Avete dati sul numero delle vittime? E qual è la situazione delle organizzazioni umanitarie e religiose presenti nel Paese, come i vostri confratelli?
Un bilancio preciso è impossibile, ma i dati parziali che emergono dal campo sono terrificanti. Da fonti attendibili sappiamo che le RSF stanno cancellando le prove dei crimini commessi. Una città vicina ad el-Fasher, che aveva 260.000 abitanti, ha visto l’arrivo di 80.000 nuovi sfollati in fuga. In un singolo ospedale sono state uccise più di 400 persone. In una sola giornata di combattimenti si contano oltre 2.000 vittime, per lo più esecuzioni sommarie.
I medici vengono presi in ostaggio, paralizzando quel che resta del sistema sanitario. In questo inferno, alcuni continuano a operare. Medici Senza Frontiere è presente con una pediatra in una località vicina ad el-Fasher. I missionari comboniani, da parte loro, stanno tentando un difficile rientro a Khartoum, da cui sono assenti dall’inizio della guerra nell’aprile 2023. La loro storica sede, il Comboni College, è stata completamente distrutta dalle forze ribelli. Da Port Sudan, tuttavia, sono riusciti ad attivare un “Comboni College virtuale” per non interrompere del tutto l’istruzione. Assieme a loro, resistono altre congregazioni, come le suore di Madre Teresa. Questi frammenti di realtà descrivono una catastrofe umanitaria che esige una risposta non più procrastinabile e che chiama in causa la coscienza di tutti.