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Cultura > Itinerari letterari

Anche i dittatori piangono

di Oreste Paliotti

- Fonte: Città Nuova

L’affascinante ritratto di un’artista eccentrica e ribelle, protagonista di tempi bui e roventi, che osò sfidare Stalin

Un vecchio busto di Stalin fuori da un’abitazione privata nella regione di San Pietroburgo. EPA/ANATOLY MALTSEV

Si può essere un dittatore sanguinario che ha sulla coscienza milioni di vittime e scoprirsi al tempo stesso così sensibile ai capolavori della musica colta da piangere. Lacrime di coccodrillo, sentenzierà qualcuno. Eppure è ciò che accadde a Stalin, l’Uomo d’Acciaio come si compiaceva d’essere chiamato, una notte del 1943, ascoltando a Radio Mosca il Concerto per pianoforte e orchestra K 488 di Mozart eseguito da Marija Judina, la più grande pianista russa dell’epoca e forse d’Europa, «capace con il suo tocco di irrompere nell’anima di chi l’ascolta, aprirla a mondi inattesi, stupori vertiginosi».

Questa storia quasi leggendaria narrata in Complice la notte (Guanda Ed.) ci trasporta nella Russia sovietica dei primi decenni del ‘900, dove in un clima claustrofobico i dissidenti dall’ideologia al potere – intellettuali e artisti sono tra i più presi di mira – lottano per la loro dignità di esseri umani a costo della vita. Solo una appassionata di teatro, musica e cinema come l’autrice Giuseppina Manin poteva penetrare nelle pieghe di un personaggio come la Judina, osteggiata per la religiosità estrema e la spregiudicatezza intellettuale, e farne l’eroina di un romanzo che, intrecciando documentazione storica e libertà narrativa, racconta di una donna appassionata e ribelle, una sorta di “monaca” in scarpe da ginnastica innamorata di Dio e di Bach, paladina di tutte le avanguardie aborrite dal regime. Per il suo fascino, nella sede di Radio Mosca la chiamavano “la Monna Lisa di Nevel” (la cittadina della Bielorussia dove Marija era nata nell’ultimo anno del 1800). Leggendari sono il suo scontro con Stalin, che pur tenendola a distanza ne apprezzava il talento geniale, come pure le sue amicizie con poeti, scrittori e musicisti “scomodi” come l’Achmatova, Mandel’Stam e Pasternak, Šostakovic e Prokof’ev.

Dalla stanza blindata della dacia di Kuncevo a pochi chilometri da Mosca dove Stalin trascorre le sue veglie notturne sintonizzato con i concerti di musica classica mandati in onda dall’una alle quattro del mattino da Radio Mosca – programmati per tirare su il morale degli ascoltatori provati dalla guerra contro la Germania nazista, riescono a rasserenare e a tenere a bada i fantasmi dello stesso dittatore – il racconto ci trasferisce nella sede dell’emittente.

Da poco l’orchestra sinfonica dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche ha concluso il Concerto di Mozart con al piano la Judina. L’auditorium è vuoto, gli orchestrali sono tornati alle loro case. Nel silenzio squilla il telefono. Una voce ben nota, quella di Iosif Vissarionovič detto Stalin, manda in tilt il funzionario capo: «C’è un disco del concerto?». Non esiste una registrazione, ma come rispondergli di no? Si rischierebbe di essere bollati come nemici del popolo. «Allora fammene avere una copia domattina. Come dove? Al Cremlino, naturalmente». Per il malcapitato funzionario inizia l’incubo, che via via si estende al tecnico del suono ancora lì e poi, telefonando alle loro case, agli orchestrali e al direttore: quella stessa notte bisogna assolutamente registrare il Concerto per Stalin! Dieci auto partono per recuperare quelli che abitano più fuori mano. Arrivano frastornati dalla brusca sveglia, impauriti; l’unica tranquilla, quasi indifferente, è la Judina. Ma al momento di iniziare, il direttore d’orchestra è troppo emozionato, non ce la fa. Panico generale. Per fortuna è presente chi può sostituirlo: Aleksander Vasil’evič Gauk già alla guida della Filarmonica di Leningrado e della Sinfonica di Stato.

«La musica riparte. Concluso l’elaborato preludio orchestrale che apre l’Allegro, Marija attacca con piglio vivace, velocissimo. Il “la maggiore” lascia presagire un festoso percorso di luce. Ma l’Adagio che segue in “fa diesis minore”, unico brano scritto da Mozart in questa tonalità, avverte fin dalle prime note che siamo approdati in tutt’altro mondo. Il tocco rallenta fino allo spasimo, profondo, impalpabile, indugia su ferite misteriose, evoca struggenti malinconie. Gauk la guarda stupito. […] Quell’Adagio che Stalin tanto brama, lei lo trasformerà in un implacabile, meraviglioso, atto d’accusa. In un requiem in memoria delle tante vittime della sua ferocia, i tanti amici scomparsi, finiti in qualche landa della Siberia, umiliati, vessati, sparati alla schiena quando, esausti, crollano al suolo». Fra loro, come non pensare al grande Florenskij, morto nel 1936 nel lager delle isole Solovki?

Il Concerto è finito, l’incisione messa a punto. L’indomani il disco, stampato in un’unica copia, giunge al Cremlino. Quando più tardi Stalin lo sistema sul piatto del fonografo e appoggia la puntina, «nel denso silenzio della stanza il tocco della pianista irrompe prepotente. I toni scuri di quella musica traboccante di dolore turbano l’ascoltatore delle tenebre, gli parlano una lingua dimenticata, gli evocano squarci di cupa, infinita, desolazione. Strano, quell’Adagio non gli pare più quello di prima. Ogni nota adesso somiglia a un terribile “memento” metafisico, gli fa venire in mente l’apparizione del Commendatore nel Don Giovanni. L’irruzione molesta di un “sovrannaturale”che non dà scampo.

Per la testa gli passano delle ombre, una folla di uomini piegati, prigionieri in campi di ghiaccio, gli schiavi delle isole Solovki. Deportati per suo ordine, per suo ordine affamati, torturati, trucidati. Si prende il capo tra le mani. […] Cosa c’è in quell’Adagio che tanto lo turba e lo confonde? […] L’anima non esiste, ma l’arte di Judina ora sta sconquassando la sua. Fa ripartire il disco. Di nuovo scendono le lacrime. Stavolta non se ne vergogna. Anzi è bello piangere. Si sente bene come da tanto non gli capitava. Qualcosa di arcano, di inaudito, gli inonda il cuore. Una sorta di riconoscenza verso quella donna sconosciuta».

Il giorno dopo Stalin fa recapitare alla Judina un biglietto con acclusi ventimila rubli: «un segno di gratitudine per la sua arte». Lei risponde a sua volta con un biglietto che consegna al messo venuto dal Cremlino: «Iosif Vissarionovič, vi ringrazio per il vostro aiuto. Pregherò per voi giorno e notte, chiedendo al Signore di perdonare i grandi peccati che avete commesso nei confronti del popolo e del Paese. Il Signore è misericordioso e vi perdonerà. Quanto al denaro, l’ho dato alla chiesa che frequento».

Niente piegò l’ebrea convertita che aveva osato sfidare l’uomo più potente della Russia. Scacciata due volte dal conservatorio dove insegnava musica, le bastava pochissimo per vivere. Versione al femminile di uno jurodivyj (il pazzo di Dio), per scelta visse senza fissa dimora, randagia come i gatti che andava a sfamare. Morì a Mosca il 19 novembre 1970: povera, ma ricca della sua stessa arte che le era stata scudo contro le forze del male. Salvata dalla bellezza. Stalin invece era morto da un pezzo, il 5 marzo 1953. Šostakovic raccontò che lo avevano trovato nella sua dacia colpito da un ictus. Sul grammofono c’era il disco del Concerto di Mozart suonato dalla Judina.

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