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In profondità > Nuovi santi

Bartolo Longo, dallo spiritismo all’avventura dello Spirito

di Oreste Paliotti

- Fonte: Città Nuova

Domenica 19 ottobre è stato canonizzato l’apostolo del rosario, un laico che tra fine ‘800 e inizi del ‘900 trasformò una landa desolata in un centro fiorente di promozione umana e di spiritualità

Quando nel 1863 Bartolo Longo si trasferì dalla natia Latiano a Napoli per laurearsi in giurisprudenza, nell’ex capitale borbonica appena uscita dai moti per l’unità d’Italia impazzavano anticlericalismo e razionalismo. Impetuoso, avido di conoscenza e di vita, quel giovanotto pugliese dall’aspetto gracile, barbetta rada e occhietti miopi ma mobilissimi, dapprima subì il fascino delle nuove idee progressiste e se ne fece lui stesso promotore; in seguito, deluso, approdò allo spiritismo, che allora contava a Napoli parecchi adepti. Divenuto un medium di prim’ordine, Bartolo venne addirittura consacrato “sacerdote dello spirito”: un sacerdote, tuttavia, sull’orlo dell’esaurimento fisico e psichico a causa del duro noviziato a cui s’era sottoposto e dei terrori di quelle indiavolate sedute.

Riuscì comunque a laurearsi nel dicembre 1864. Ma dentro lo rodeva un vuoto, un’angoscia sempre più fonda. Nostalgia del soprannaturale, quello vero? «L’anima mia cercava violentemente Iddio», dirà poi. A trarlo fuori da quella china pericolosa intervennero amici di buon senso e grande fede: soprattutto il domenicano padre Radente. Ne venne fuori un Bartolo Longo nuovo, pronto a lanciarsi nell’avventura dello Spirito. Dopo la conversione, animato dal fuoco evangelico, prese a visitare poveri e infermi. Ma più passava il tempo, più si chiedeva con insistenza quali disegni avesse Dio su di lui: il matrimonio, la carriera, oppure lo stato ecclesiastico? Né padre Radente, né padre Ribera (il suo confessore) sapevano dirglielo, pur prospettandogli una “missione” particolare.

La svolta decisiva fu avviata dall’amicizia con la contessa Marianna De Fusco, giovane vedova con cinque figli e in angustie per il suo patrimonio terriero che non rendeva nulla o quasi. Molti coloni non pagavano i canoni, e fra questi i contadini di Pompei. Bartolo Longo si offrì di curare i suoi interessi recandosi sul posto. Era l’autunno del 1872 quando il trentunenne avvocato mise piede in quella che allora si chiamava Valle di Pompei. Le campagne, feracissime per la vicinanza del Vesuvio ma in parte acquitrinose per le piene del Sarno, emanavano una malinconica bellezza. Briganti e guappi le infestavano. Ma a colpire dolorosamente Bartolo furono le condizioni dei contadini, abbrutiti dalla miseria, dalle malattie, dalla superstizione. Avrebbe voluto far qualcosa per loro, ma da dove iniziare? Un giorno vagabondava per i campi, assillato da questo problema, quando all’improvviso gli vennero in mente certe parole di padre Radente: «Se cerchi la salvezza, propaga il rosario. È promessa di Maria». Intuì – e fu uno squarcio di luce – che la redenzione sua e dei valpompeiani passava attraverso il rosario. Che il suo destino era legato per sempre a quei luoghi, a quella gente.

Dal ’73 al ’75, con sagre popolari e missioni, Bartolo riuscì a elevare il livello spirituale degli abitanti del posto. Per loro fondò anche una congregazione del rosario. Ma occorreva una immagine della Vergine da collocare nella cadente chiesetta parrocchiale. Per questo la mattina del 13 novembre 1875 si recò a Napoli. Lì s’imbatté nel padre Radente, il quale gli propose un dipinto di sua proprietà. Ahimè, quella tela rozza e sdrucita era un autentico orrore. «Sembra fatta apposta per far perdere la devozione!» avrebbe commentato la contessa De Fusco. Ma il tempo stringeva e lui aveva promesso al popolo il quadro per il giorno dopo; così si rassegnò a portarselo via. Date le dimensioni, lo affidò ad un colono che doveva partire per Valle col suo carretto, e avendolo preceduto là col treno, rimase ad aspettarlo, ignaro che «il buon carrettiere, senza pensarci più che tanto, e nella massima buona fede, aveva collocato il quadro sul letame, di cui quel giorno era carico il suo carretto». Eppure quel dipinto senza alcun valore artistico (il pittore Maldarelli si offrì poi di restaurarlo e di “ingentilire” le rustiche fattezze della Vergine) nel giro di pochi decenni doveva diventare «il sospiro e la consolazione di milioni di fedeli in tutto il mondo».

Davanti alla rinascita spirituale della sua gente, il vescovo di Nola accarezzava l’idea di una nuova chiesa da erigere con sottoscrizione popolare. Invitato ad occuparsene, Bartolo si schermì. Ma il vescovo fu irremovibile: «Quello è il luogo dove dev’essere edificato un tempio in Pompei». E indicò un campo di granoturco e lupini contiguo alla parrocchia. Con l’aiuto della contessa e di altri devoti, Bartolo si lanciò con l’entusiasmo suo solito nell’impresa di raccogliere fondi. «Mentre andavamo in giro per Napoli, fra i sospetti e le derisioni di molti, per raccogliere il soldo al mese – era il suo slogan – ecco a Napoli le prime grazie, e poi una fioritura di grazie, e poi prodigi, e prodigi in tutta Italia…».

Le offerte divennero sempre più cospicue, tanto che l’8 maggio 1876 già poteva esser posta la prima pietra del futuro celebre santuario. Iniziata con l’umile catechesi ai contadini e con la recita del rosario davanti a un brutto quadro della Madonna, l’opera era destinata ad assumere impensati sviluppi sociali, tra il rispetto e l’ammirazione anche di atei, massoni e accesi anticlericali. Quanto avvenne dopo non era neppure lontanamente prevedibile: «A un tratto, il soprannaturale ci sorprende e ci sorpassa – scriverà Bartolo ad anni di distanza –. Credevamo di essere i fondatori, divenimmo i primi spettatori attoniti dell’opera di Pompei».

Nell’arco di 50 anni cosa non inventò il malaticcio avvocato di Latiano per gli ultimi della società! Prima una scuola di catechismo, poi la tipografia, la scuola serale, gli asili, l’orfanotrofio femminile, l’ospizio per i figli dei carcerati e… addirittura una città: Nuova Pompei, a due passi da quella antica, che oggi conta oltre 23 mila residenti. Erano iniziative per molti versi rivoluzionarie come quella per i figli dei carcerati, salvati dall’abbandono e dal pericolo di perdersi a loro volta. In un’epoca in cui il Lombroso e i suoi seguaci avevano creato il dogma della predestinazione organica alla delinquenza, il Longo scardinò i princìpi inumani della scienza antropologica ufficiale, presentando al mondo le trasformazioni operate in quei fanciulli asociali.

Il suo metodo? «Nel ricevere i miei fanciulli, figli di condannati, non li guardo in faccia, né sul cranio, ma solamente mi accerto se sono reietti ed innocenti abbandonati; e questo mi basta: li stringo al cuore ed incomincio ad educarli. Io seguo il mio maestro che è Cristo; per conseguenza, dove si fa nemica della carità, io lascio la scienza e seguo la carità». E che dire della sua imponente attività pubblicistica? Basti pensare alla Pratica dei quindici sabati, tradotta perfino in arabo, e al periodico Il rosario e la Nuova Pompei che, fondato nel 1884, raggiunse presto le 100 mila copie: una pazzia per quell’epoca di imperversante laicismo.

Da quando prese piede l’avventura pompeiana, gli osanna non andarono mai disgiunti dai sospetti e dalle invidie per l’amministrazione delle offerte, «veri fiumi di denaro»; dalle torbide dicerie circa i rapporti di Bartolo con la contessa De Fusco (si sposarono solo per esplicito invito di Leone XIII, che intese così mettere fine alle male lingue; e del resto, senza che lui venisse meno al suo voto di castità); dagli scandali causati dai figli non tutti esemplari di lei…

Il Longo sopportò tutto come una purificazione; tranne quando gli toccavano i suoi protetti, i fanciulli raccolti. Allora ridiventava l’avvocato polemico, l’oratore trascinante. Se poi il calice amaro gli veniva porto dalla Chiesa, la sua obbedienza si faceva eroica. Arrivò a rinunciare, in favore della Santa Sede, a tutte le opere di Pompei, senza trattenere per sé neppure ciò che gli sarebbe stato lecito (morì infatti poverissimo); accettò di essere messo da parte, lui che di energie e di iniziative ne aveva da vendere.

Simile ad un antico patriarca, sempre più assorto in Colei alla quale aveva dedicato quella Supplica che era ormai sulla bocca del pontefice e di milioni di cristiani, quattro anni prima di morire lanciò al mondo un ennesimo infuocato appello: a favore, stavolta, delle figlie dei carcerati. Come sempre, da tutto il mondo la risposta giunse generosa; e sorse il nuovo ospizio. Era l’ultima esplosione d’amore dell’ottuagenario avvocato. Imprevedibile come quel Vesuvio che vegliava sulla fabbrica della Nuova Pompei.

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