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In profondità > I lettori ci scrivono

Croce

di Redazione

La meditazione di un amico di Città Nuova, che ci scrive dal letto di ospedale, dato che «in gabbia» ha molto tempo a disposizione

La croce divelta di una chiesa

Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16, 24)

Tendiamo a dare al termine croce un significato simbolico, di sofferenza. Per chi ascoltava Gesù non era così. Loro vedevano con i loro occhi i briganti e i rivoltosi condannati a morte dai Romani, portare il patibolum sulle spalle fino al luogo dell’esecuzione. Prendere la croce era una frase forte: evocava umiliazione pubblica, dolori indicibili, una via di non ritorno verso la morte.

Come se Gesù dicesse oggi: chi vuole venire dietro di me, salga sulla sedia elettrica. Il versetto di Matteo riferisce parole autentiche di Gesù, che conosceva già il suo destino, o come dicono approcci storici contemporanei, è una lettura retroattiva fatta dall’evangelista, dopo la crocifissione, per dare senso teologico agli eventi? Poco importa, è faccenda da teologi. Il fatto è che questa frase e la successiva, chi vuole salvare la propria vita, la perderà, sembra andare contro tutto quello che si ritiene oggi importante per la realizzazione della propria vita, anche spirituale.

L’aria che respiriamo oggi nella nostra società occidentale mette il soggetto come protagonista, il sentirsi in primis autore della propria vita è diventato il perno attorno a cui tutto ruota, mettendo in secondo piano l’adesione o l’obbedienza a varie autorità gerarchiche o istituzionali, anche nella Chiesa, anche nei Movimenti ecclesiali. Tutto ciò può essere buono, perché mette in moto una maggiore consapevolezza, responsabilità, attenzione all’altro. Ma c’è una domanda fondamentale: questo nuovo perno, che sono io, attorno a cui adesso tutto ruota, è un perno forte? Sa reggere la vita, e soprattutto sa reggere un percorso di santità?

È una domanda molto seria, a cui ognuno dovrebbe cercare di rispondere. Certo è che un paio di millenni di storia della Chiesa hanno dimostrato che da soli non ce la si fa, se non c’è qualcuno che ci tira verso l’alto, fuori da noi stessi, perché da soli, anche siamo convinti di riuscirci, non possiamo farcela.

A volte questo qualcuno oggi non si ama vederlo nell’autorità di un singolo, ma nella comunione in un gruppo. Questo sposta poco il problema: il gruppo è fatto di singoli, e questi singoli, sono dei perni forti, che sanno trasportare se stessi e gli altri nel cammino della santità che è richiesta oggi?

Una celebre massima greca, inscritta sul tempio di Apollo a Delfi, diceva: γνῶθι σεαυτόν, conosci te stesso. Conoscere se stessi è un percorso arduo, non è un trattamento di benessere come lo si intende oggi, di solito richiede una profonda e severa interazione con gli altri. Ma è in contrasto con la frase di Gesù? No. Però rappresenta solo il primo  passo. È necessario conoscere se stessi, sviluppare appieno se stessi, però non per affermarsi, ma per… perdersi.

Perdere quello che siamo, perché la nostra pienezza, il nostro splendore, sta solo nella risurrezione che verrà dopo la morte. Qui possiamo solo cercare di avvicinarci ad essa. E l’unico modo per avvicinarci è fare cosa dice Gesù: chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.

(M.G.)

 

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