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Finanza pubblica, occorre una visione di lungo termine

di Benedetto Gui

Dai dati emergenti dalla manovra di bilancio che andrà in discussione in Parlamento emergono segnali positivi sul debito pubblico. Un effetto della maggiore pressione tributaria che grava sui lavoratori dipendenti, che pagano più degli altri lavoratori.

Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti in Senato, Roma, 24 settembre 2025. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

In questi giorni il governo ha approvato il Documento programmatico di finanza pubblica (clicca qui per leggerlo sul sito del Ministero), che costituisce il primo passo per la manovra di bilancio. Prima ancora di guardare alle proposte per il prossimo anno, qual è la situazione ad oggi? Abituati da anni ai toni tragici, siamo quasi sorpresi nel constatare che non siamo in allarme rosso.

Certo, il nostro gigantesco debito pubblico è lì, con i suoi 3.000 miliardi, e incombe sulle nostre teste come una montagna un po’ instabile sulla valle sottostante. Per poter fare dei confronti nel tempo e tra Paesi, è sempre utile misurarlo come percentuale del Prodotto Interno Lordo (PIL) annuo. Qui, la buona notizia è che la punta del 150% raggiunta nel 2020 (l’anno del Covid) si è poi progressivamente smussata, tornando a valori attorno al 135%, quelli di 10 anni fa.

Certo, è la percentuale più alta dell’Unione Europea, con l’eccezione della Grecia (152%, ma in rapido calo). Quella cifra, però, fa meno effetto oggi che anche la Francia ha superato il 115% e, oltre Atlantico, gli USA hanno raggiunto il 125%. Tanto più che il deficit pubblico (il disavanzo annuale tra entrate e uscite, che accumulandosi diventa debito) sta scendendo di anno in anno dal picco del 9% dell’anno del Covid verso il 3%, il limite considerato tollerabile in sede europea.

E così abbiamo visto calare lo “spread Italia-Germania”, ossia la differenza tra il tasso di interesse che lo Stato italiano deve pagare per farsi finanziare a 10 anni e il corrispondente tasso tedesco. Si tratta di un vero e proprio termometro della sfiducia dei mercati finanziari nei confronti della nostra finanza pubblica, perché un tasso più alto è la compensazione che i finanziatori chiedono per correre il rischio di prestare ad un Paese meno affidabile.

Il governo italiano ha ragione di essere orgoglioso che lo spread sia oggi attorno agli 85 “punti base” (ossia, 85 centesimi di punto percentuale), lo stesso livello della Francia. Al momento della formazione dell’attuale governo, all’inizio dell’autunno 2022, il nostro spread aveva sfiorato i 250 punti base, mentre quello francese oscillava attorno ai 50 (allora, ma non altrettanto oggi, la Repubblica Francese era considerata un debitore tra i più affidabili).

Contro le aspettative che prevalevano in quel momento tra gli operatori finanziari, il ministro dell’Economia Giorgetti, con l’appoggio della presidente del Consiglio, ha evitato di mettersi in conflitto con le autorità europee e ha resistito alla tentazione di ogni governante di guadagnarsi la simpatia degli elettori distribuendo favori a piene mani agli uni o agli altri. Un riconoscimento in tal senso è venuto recentemente dalla società di valutazione dei rischi di credito Fitch, che ha alzato di un gradino il “rating”  (il punteggio di affidabilità) del nostro debito pubblico.

Va detto che una migliore credibilità finanziaria accomuna oggi tutti i Paesi sudeuropei che durante la crisi del debito sovrano del 2011-12 si erano visti attribuire il poco onorevole acronimo di “PIGS” (maiali, ndr). Anzi, gli altri tre del quartetto hanno oggi uno spread anche inferiore a quello italiano: non solo il Portogallo (42 punti base) e la Spagna (55 punti base), ma persino la Grecia (70 punti base). Uno spread più basso è chiaramente una buona notizia per la nostra finanza pubblica, perché alleggerisce la spesa per interessi (oggi vicina ai 90 miliardi l’anno!). Ma questo non basta ad assicurare una navigazione serena.

La spesa per interessi, purtroppo, è ancora destinata a crescere, perché stanno andando a scadenza titoli di debito pubblico che a suo tempo erano stati emessi a tassi inferiori a quelli odierni. Infatti, nonostante il nostro spread fosse alto, la base a cui sommarlo, il tasso sui titoli decennali del Tesoro tedesco, era eccezionalmente basso; addirittura – tra il 2020 e il 2022 – negativo!

Da qualche anno, invece, le banche centrali sono tornate a stringere i cordoni della borsa. Oggi, ad esempio, il titolo decennale del Tesoro tedesco paga il 2,7%, e quindi, aggiungendo il pur ridotto spread, le nuove emissioni di titoli decennali del Tesoro italiano devono pagare ai sottoscrittori circa il 3,6%. Se la barca della finanza pubblica procede, non certo in acque tranquille, ma almeno senza scogli affioranti proprio davanti alla prua, resta da chiederci come vadano le cose per chi ci sta dentro.

La diminuzione del deficit pubblico si spiega in buona parte con l’aumento della pressione fiscale (ossia il totale delle tasse e imposte raccolte), che nel 2024 ha raggiunto il 42,5% del Prodotto Interno Lordo, in crescita rispetto al 2023 e anche rispetto alle previsioni. Le promesse dell’attuale maggioranza erano per una progressiva diminuzione fino al 40%, ma certo quei punti percentuali prelevati in più hanno permesso ai nostri conti pubblici di ritrovare un certo equilibrio.

Se questo è un vantaggio per tutta la collettività nazionale, il sacrificio resta fortemente malripartito. Una categoria penalizzata è quella dei lavoratori dipendenti. Da un lato le retribuzioni contrattuali non hanno tenuto il passo dell’inflazione seguita al Covid e alla guerra dell’Ucraina (la perdita di potere d’acquisto dal gennaio 2022 è stimata attorno al 7%). D’altro lato, nella misura in cui i redditi da lavoro (o da pensioni) sono effettivamente cresciuti per recuperare l’inflazione, i contribuenti vengono tassati come se fossero più ricchi, e quindi con aliquote medie più alte, mentre in realtà in termini di potere di acquisto stanno peggio o, se va bene, al pari di prima.

Secondo una stima di Leonardi e Rizzo questo fenomeno, detto “drenaggio fiscale” (in inglese fiscal drag) avrebbe appesantito l’IRPEF (l’imposta nazionale sui redditi personali) per la considerevole cifra di 25 miliardi di euro. In questo modo, tra l’altro, si è ulteriormente accentuato il divario di trattamento rispetto ai lavoratori autonomi, che pagano un’aliquota unica (che non cresce con il reddito, quindi niente drenaggio) e più bassa (15%, incluse le addizionali regionali e comunali). Questo “regime forfettario”, di grande favore, è limitato a chi percepisce redditi inferiori ad 85.000 euro, ma la stragrande maggioranza delle dichiarazioni si colloca al di sotto di questa soglia.

A ciò contribuisce una evasione diffusa (e in qualche modo tollerata), che resta particolarmente forte proprio per i redditi da lavoro autonomo e da impresa (dati di fonte ufficiale la stimano attorno a due terzi del dovuto, per un ammontare prossimo ai 30 miliardi). Qui sta uno dei punti dolenti della nostra convivenza civile a cui è prioritario porre rimedio, con il disegno della manovra finanziaria, ma anche con la volontà politica di chi sovraintende all’operato quotidiano dell’amministrazione fiscale.

Quella che invece è diminuita in modo significativo negli ultimi 7-8 anni, a beneficio del bilancio pubblico, è l’evasione dell’IVA, la più importante delle nostre imposte indirette. A portarla a poco più del 13% hanno contribuito alcune misure prese negli anni precedenti: oltre allo split payment (versamento diretto al fisco dell’IVA dovuta sugli acquisti delle amministrazioni pubbliche), penso alla fatturazione elettronica, che gli attuali governanti, allora all’opposizione, avevano criticato. Questa circostanza rende evidente come i buoni risultati – in questo caso il miglioramento dei conti pubblici – non siano merito solo di chi è in sella in un certo momento.

Per contro, chi governa oggi si trova a  portare il peso di misure troppo generose prese precedentemente, come, andando indietro nel tempo, le “baby pensioni” o, più recentemente, il lungo strascico di detrazioni (e quindi di mancati introiti fiscali) del “bonus casa 110%”.

Questo per ricordare a tutti noi, governanti e governati, che i successi e i fallimenti sono prima di tutto del Paese e vanno costruiti insieme con lungimiranza nella successione democratica degli esecutivi e dei parlamenti.

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