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Il ritorno della Guerra e il futuro dell’Europa

a cura di Carlo Cefaloni

- Fonte: Città Nuova

Carlo Cefaloni

Intervista allo storico Marco Mondini sulla necessità di prendere coscienza del passaggio d’epoca avvenuto con l’invasione russa dell’Ucraina. Occorre misurarsi seriamente sul dilemma del morire e uccidere in guerra come avvenuto per intere generazioni del nostro Paese. La tesi della necessità del riarmo come forma di deterrenza  per arrivare al meno all’equilibrio di una nuova guerra fredda. Una tesi sempre più diffusa, espressa senza fronzoli, che chiama al confronto con tutti e il mondo pacifista in particolare

Esercitazione NATO in Estonia, nella foto il principe britannico Williams. EPA/TOMS KALNINS

Ormai da tempo gli italiani, a partire dalla presidenza della Repubblica di Carlo Azeglio Ciampi, hanno ricominciato a cantare l’inno nazionale che finisce baldanzosamente con la frase “siam pronti alla morte, l’Italia chiamò!”. Al governo siede stabilmente un partito con il nome che riprende l’inizio dell’inno di Mameli: Fratelli d’Italia, e ha lanciato una campagna nei comuni per dare cittadinanza onoraria simbolica al milite ignoto che giace vegliato costantemente sull’altare della Patria ai piedi dell’effige della Dea Roma.

Lo storico Marco Mondini, professore universitario a Padova con un lungo curriculum scientifico e frequenti presenze in Tv, ha scritto un libro intenso e rigoroso in cui spiega che è ora di svegliarsi perché non viviamo più nell’era postbellica ma in una fase prebellica dove l’intenzione di morire e uccidere per la Patria è chiamata a misurarsi con la realtà perché la guerra non è scomparsa dalla storia ma è ritornata tra noi prepotentemente dal 24 febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina. Serve a poco chiudere gli occhi. Una visione lucida che interpella seriamente tutti e in particolare la costellazione pacifista dalle molte anime presente in Italia.

Al periodo eroico dei cittadini pronti ad immolarsi per la patria è seguita per reazione una fase post eroica che ora è messa in crisi da “Il ritorno della guerra”, come recita il titolo del libro di Mondini, che pone di nuovo il dilemma del combattere, uccidere e morire.

L’opera passa in rassegna la storia d’Italia a partire dal 1861 analizzando le guerre combattute dagli italiani fino al 1945 nella convinzione di dover essere sempre pronti a morire e a uccidere nonostante la falsa retorica e l’inettitudine delle gerarchie militari che l’autore descrive nei particolari. Non è di ostacolo nel testo, anzi motivo di maggiore rigore, il fatto che l’autore, storico della guerra e da ufficiale della riserva, è stato da poco richiamato in servizio presso lo Stato Maggiore Esercito.

In questa intervista cominciamo affrontando il numero incerto dei morti nella guerra in Ucraina. «È un pessimo segnale – afferma Mondini – perché, per noi storici, l’incertezza sul numero dei morti vuol dire che la cifra è così spaventosamente alta che i comandi militari tendono a tenerla segreta».

Cominciamo il dialogo alla vigilia della Marcia Perugia Assisi. Come considera tale evento che solitamente vede una grande partecipazione in Italia?
Credo che la prima edizione della Marcia promossa da Aldo Capitini nel 1961 rappresenti il momento in cui l’illusione pacifista europea ha messo radici profonde. Siamo stati protagonisti di un “bel sogno”, come lo hanno definito figure insospettabili di bellicismo quali, a suo tempo, Norberto Bobbio. Un sogno coltivato dopo le macerie delle due guerre mondiali, quando la retorica patriottica tradizionale, quella del “dulce et decorum est pro patria mori“, viene finalmente smascherata come “la vecchia bugia”.

Questa disillusione  è stata incarnata da figure come Piero Calamandrei. Veterano della Grande Guerra che credeva nella causa patriottica, ma che dopo il 1945 divenne un oppositore radicale della guerra e un convinto pacifista, arrivando a votare contro l’adesione dell’Italia alla NATO. La sua traiettoria personale esemplifica il cambiamento di un’intera generazione.

Cosa ha comportato tale cambiamento?
La generazione degli anni ’60 è quella che ha vissuto questa svolta, arrivando a considerare la guerra come il “massimo della negatività”. Il cambiamento non è stato solo teorico, ma visibile. Le parate militari si sono diradate, la presenza dell’esercito nel panorama urbano è diventata sempre meno rilevante, e le armi hanno perso quasi del tutto il loro “potere seduttivo”.

Questa profonda smilitarizzazione culturale, unita all’entusiasmo per la “fine della storia” teorizzata dopo il 1989, ha creato il terreno fertile per un disarmo politico e strategico del continente. Ma, mentre si tagliavano i budget per la difesa e si coltivava l’idea di una pace ormai scontata, ai confini del continente erano evidenti i segnali di una diversa direzione della storia.

A cosa si riferisce?
Penso ad esempio alla pulizia etnica in ex-Jugoslavia. Era impossibile ignorare segnali così vicini e così brutali. Di fronte a segnali così inequivocabili, l’opinione pubblica europea ha fatto come lo struzzo che mette la testa sotto la sabbia. In questo periodo sono stati decisi tagli drastici ai budget per la difesa. Pensiamo alla Germania, che ha dimezzato la spesa militare nel periodo che va dal 1989 e quelli dei primi anni 2000. Gli europei non volevano più sentir parlare di guerra. Le guerre che continuavano a esserci venivano percepite come “esotiche”, missioni di pace in Paesi lontani, delegate a pochi soldati esperti. Fenomeni da guardare in televisione senza alcun coinvolgimento emotivo.

Si è affermato un tipo umano disinteressato agli equilibri mondiali; ciò che gli importa è “la pensione presto e l’auto a basso costo”. Una trasformazione da cittadino attivo, anche in armi se necessario, a consumatore passivo.

Quali altri segnali sono stati trascurati in questi anni a suo parere?
Penso al discorso di Vladimir Putin a Monaco nel 2007 in cui la Russia ha espresso la tesi della sua umiliazione post-sovietica e annunciato un “cambio di passo” verso il recupero della “grandezza imperiale”. È arrivata poi l’invasione della Georgia nel 2008 e la prima aggressione all’Ucraina nel 2014, ma in Europa si è continuato a preferire la confortante illusione alla scomoda realtà dando spazio alla proliferazione di narrazioni distorte, tra cui quella molto diffusa dell’espansione della NATO come causa scatenante della reazione russa.

Cosa ne pensa della promessa fatta dagli Usa a Gorbaciov di non allargare la Nato verso Est dopo la riunificazione delle due Germanie?
La ritengo una mitologia costruita su un enorme equivoco. L’accordo del 1990-91 fu un impegno politico, non un trattato internazionale, preso con l’Unione Sovietica — uno stato che di lì a poco si sarebbe dissolto. L’impegno consisteva nel non installare basi e armi strategiche ai suoi confini, non nell’impedire a futuri stati sovrani di chiedere di aderire all’Alleanza Atlantica.

È ciò che hanno fatto per primi i Paesi baltici e la Polonia…
Parliamo di nazioni tradizionalmente terrorizzate dalla Russia. Una volta riconquistata la sovranità hanno legittimamente chiesto protezione sia all’Unione europea sia alla NATO. Era un loro diritto sovrano, non un’imposizione. Lo stesso vale per l’Ucraina, che negli anni ’90 restituì il suo arsenale nucleare alla Russia in cambio di una garanzia di non aggressione che, come sappiamo, è stata stracciata da Putin.

Contrariamente alla tesi della provocazione occorre tener presente che fino al 2014 la Russia era ufficialmente definita un “partner strategico” della NATO. La collaborazione era stretta, come nella lotta al terrorismo dopo l’11 settembre o contro Daesh. Il rapporto di stima politica tra Angela Merkel e Vladimir Putin è un esempio lampante di come l’atteggiamento occidentale fosse tutt’altro che ostile.

A prescindere dalla ricostruzione dell’origine della crisi progressiva dei rapporti internazionali, ora ci troviamo di fronte al dilemma della guerra. Nel suo libro ci ha ricordato che per oltre due secoli gli italiani hanno obbedito al richiamo di andare al fronte per combattere, uccidere e morire. E oggi?
L’opinione pubblica italiana, in particolare, appare anestetizzata, rendendo il nostro Paese il ventre molle dell’Europa, incapace di accettare che dopo il 24 febbraio 2022 “non si tornerà indietro”.

Ma di fronte al casus belli sempre possibile a verificarsi in Ucraina, esiste il rischio concreto di un ritorno della coscrizione obbligatoria e, in ultima analisi, di essere chiamati a combattere? In questi giorni vediamo i nati nel 2008 comparire nelle liste della leva che non è stata abolita ma solo sospesa.
Lo dico da professore da storico della guerra e da ufficiale della riserva, da poco richiamato in servizio presso lo Stato Maggiore Esercito: un ritorno alla leva tradizionale è impensabile. Le ragioni sono puramente pratiche: i costi sarebbero proibitivi, mancano le caserme, gli addestratori, gli equipaggiamenti. Inoltre, una leva di massa sarebbe inutile per le esigenze della guerra moderna.

Ciò che invece è una certezza è un aumento stabile e permanente delle spese per la difesa. Penso alla scioccante ammissione del Cancelliere tedesco Olaf Scholz, un socialdemocratico di formazione pacifista, che dopo l’invasione russa in Ucraina del 2022 si è detto traumatizzato nello scoprire che la Bundeswehr non era nemmeno in grado di difendere il proprio Paese.

Scholz ha varato in pochi giorni una spesa da 100 miliardi di euro inaugurando in breve tempo nuovi stabilimenti produttivi di missili e bombe. I vertici della Ue parlano di trasformazione dell’economia in assetto di guerra…
Sarà inevitabile. Gli investimenti non riguarderanno ovviamente solo le armi tradizionali, ma si concentreranno su tecnologia, ricerca, satelliti, cibernetica e robotica. Il modello verso cui ci stiamo muovendo è quello di eserciti professionali più grandi, ma soprattutto più “porosi” e integrati con la società civile. Sarà cruciale attrarre competenze specialistiche — medici, ingegneri, informatici — attraverso strumenti come la riserva selezionata, rendendo il mondo militare e quello civile finalmente permeabili l’uno all’altro. Questo riarmo strategico e tecnologico non è un fine in sé, ma lo strumento necessario per affrontare l’unico scenario futuro che appare oggi realisticamente percorribile.

Se tutte le parti cercano la vittoria è impossibile la via negoziale. Quale prospettiva si delinea allora per l’Europa?
Una soluzione diplomatica è impraticabile finché a Mosca la leadership non cambierà radicalmente. La sua sopravvivenza politica si basa sulla mobilitazione del proprio Paese per una guerra permanente. Per un regime autocratico, lo stato di conflitto perenne è un formidabile strumento di consenso interno, che rende ogni autentica apertura alla pace una minaccia esistenziale al proprio potere.

In questo quadro, l’unica strategia percorribile per l’Europa è sviluppare una difesa e una deterrenza talmente credibili da rendere controproducente per la Russia la prosecuzione del conflitto. Lo scenario migliore che abbiamo di fronte è quello di una nuova Guerra Fredda.

Che vantaggi avrebbe un tale assestamento politico in chiare zone di influenza?
La presa di consapevolezza della realtà dai contorni chiari: un’Europa che diventa una “fortezza liberal democratica”, ricca e potenzialmente forte, ma “assediata” e, dato il crescente disimpegno o ostilità degli Stati Uniti, fondamentalmente “sola” nel difendere i propri valori. Dobbiamo avere la lucidità di ammetterlo: quel mondo di ottimismo, di entusiasmo, di frontiere aperte, quel mondo lì è finito per sempre. Dispiace dirlo pensando ai nostri figli, ma di fronte ad una guerra attuale che alcuni definiscono tiepida credo che sia necessario almeno arrivare alla guerra fredda per non precipitare nell’inferno della guerra calda.

Ma sono scelte che passano sopra a testa della popolazione. La maggior parte dei cittadini, e purtroppo anche dei politici, ignora concetti basilari come lo Strategic Concept della NATO o i reali costi della difesa anche se proprio i centri di ricerca “pacifisti” sono quelli che producono studi seri, come ad esempio l’osservatorio Milex o l’Archivio Disarmo.
È vero, ma sono conosciuti da pochissimi. Questa indifferenza crea una profonda ferita democratica che poi offre spazio alla narrazione populista tale da impedire ai governi di fare le scelte necessarie. Ricordo che in Italia il partito comunista fu l’unico a votare contro la sospensione della leva, temendo che la sua abolizione avrebbe rimosso una forma di controllo democratico sulle forze armate, un timore che oggi appare profetico.

La crisi in Francia di Macron si spiega in gran parte con la scelta del riarmo e di un protagonismo anche militare in Ucraina mentre la gente scende in piazza per contestare l’abolizione di alcune festività o la riforma delle pensioni con l’innalzamento dell’età di uscita dal lavoro.

Bisogna prendere atto che l’eredità di una pace data per scontata è andata perduta, forse irrimediabilmente. Ai cittadini europei, e a quelli italiani in particolare, spetta ora il compito scomodo ma necessario di prendere coscienza di questa nuova realtà, informarsi, partecipare e pretendere un dibattito democratico maturo sulle scelte che definiranno la nostra sicurezza e la nostra stessa identità per le generazioni a venire.

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