La notizia ha fatto rumore. Un treno con 110 pacifisti italiani si è trovato il 6 ottobre nella città di Leopoli mentre l’aviazione russa ha sferrato uno dei suoi attacchi che non si sono mai interrotti nonostante le trattative avviate da Trump direttamente con Putin per risolvere il “caso Ucraina”.
Gli italiani sono appartenenti a diverse realtà che hanno aderito al progetto del Movimento europeo di azione nonviolenta (Mean) presieduto da Angelo Moretti. Il Movimento è nato dopo l’evento traumatico dell’invasione russa dell’Ucraina e subito dopo il 24 febbraio 2022 si è recato, con diverse delegazioni, 14 volte in quel Paese, diventato ormai la prima linea del fronte occidentale, per dare un segno di solidarietà alla popolazione civile.
A differenza dello storico Movimento Nonviolento fondato da Aldo Capitini e presieduto ora da Mao Valpiana, il Mean sostiene la necessità di istituire i corpi civili di pace, istanza da sempre della Rete italiana pace e disarmo, affiancandola alla necessità di fornire le armi all’esercito ucraino. Una differenza sostanziale.
Al progetto Mean hanno aderito tra gli altri l’Azione Cattolica, il Masci, l’associazione Base Italia fondata dall’ex sindacalista Marco Bentivogli e da ultimo anche le Acli.
Ne parliamo con Tommaso Marino, già segretario nazionale del Movimento Lavoratori di Azione Cattolica (Mlac), che ha partecipato al viaggio di inizio ottobre 2025 in Ucraina dopo una precedente esperienza nel luglio 2024 in quella parte di Europa che è molto vicina a noi.
Marino insegna Matematica e Fisica nelle scuole superiori ed è consigliere comunale eletto con il Pd a Collegno, comune che fa parte dell’area metropolitana di Torino
Mentre tutti guardavano verso Gaza, voi siete andati vicino al fronte con la Russia. Siete stati definiti, da alcuni, critici verso le intenzioni delle barche dirette in Palestina come la “buona Flotilla” e poi come i pacifisti esposti al rischio delle bombe russe. Ti definisci un pacifista?
Il termine “pacifista” diventa subito complesso quando la prima cosa che ti chiede il capo militare della regione di Kiev è: «Se avete dei missili, mandateceli». Per questo preferisco la parola “pacificatore”, inteso come colui che cerca attivamente di mettere in dialogo realtà contrapposte. Il pacifismo italiano ha molte sfaccettature, ma il contesto ucraino ti costringe a confrontarti con la realtà di un popolo che sente la necessità delle armi per difendersi. È un tema controverso, complicato, che non si può liquidare con una semplice etichetta.
Qual era lo scopo principale del vostro viaggio? Si trattava di un’operazione umanitaria?
No, la nostra non è stata un’operazione umanitaria nel senso classico del termine. Non abbiamo portato aiuti materiali, ma qualcosa di più impalpabile: la nostra amicizia. Ciò che ci ha colpito è stato vedere lo stupore e l’apprezzamento degli ucraini. Erano letteralmente sconvolti dal fatto che 110 persone fossero partite dall’Italia solo per stare con loro, per stringergli la mano, per abbracciarli. Lo stesso vescovo locale ci ha espresso la sua sorpresa.
Per me l’obiettivo non era “aiutare” in senso materiale, ma ascoltare, stare vicino al popolo ucraino e, in definitiva, “aiutare forse me stesso a capire di più le vicende della vita”. È stato un viaggio per comprendere, non per risolvere.
L’iniziativa è stata presentata come un evento del Giubileo della Speranza. Chi avete incontrato?
Abbiamo cercato di entrare in contatto con diverse anime del Paese. Abbiamo incontrato il Nunzio Apostolico e il vescovo locale, con i quali abbiamo celebrato un “giubileo della pace e della speranza”. In quell’occasione, abbiamo voluto fare un momento di memoria per i caduti di tutte le guerre, perché la guerra uccide allo stesso livello, senza considerare etnia o appartenenza. E questo include anche i militari russi. Abbiamo incontrato diversi rappresentanti della società civile, inclusi alcuni sindaci e associazioni locali, per comprendere le sfide della vita quotidiana sotto la guerra. Tra questi gli scout ucraini che mantengono legami solidi con gruppi italiani come l’AGESCI e il MASCI.
Sappiamo che dopo oltre 3 anni di guerra cresce il numero di coloro che cercano di sfuggire alla leva o apertamente compiono la scelta dell’obiezione di coscienza con il sostegno del Movimento Nonviolento. Avete incontrato anche questi obiettori alle armi in Ucraina?
No. Non abbiamo avuto occasione. Ho percepito invece una determinazione fortissima a difendersi. È significativo che i soldati non vengano chiamati “militari”, ma “difensori”. Esiste una convinzione diffusa e radicata nella “vittoria finale”. L’ho sentita pronunciare da tutti, dal capo militare della regione che abbiamo incontrato, fino alla persona comune che serviva il caffè al bar. Per sensibilità, non ho chiesto cosa intendessero esattamente con “vittoria finale”, perché è un tema lacerante, ma la loro volontà di resistere è assoluta.
Ma la ricerca della vittoria finale da entrambe le parti non conduce all’escalation incontrollabile?
«Ma di quale escalation parlate?», ci ha detto un vescovo già lo scorso anno. «Quello che viviamo è già la punta estrema di un disastro che ci obbliga a difenderci in tutti i modi possibili».
Hai notato critiche verso il governo di Zelensky?
Il sostegno a Zelensky appare solido. Ma ciò che colpisce ancora di più è il loro fortissimo desiderio di Europa. Non parlavano con noi in quanto “Italia”, volevano “parlare con l’Europa”. Sentono profondamente che la scelta di avvicinarsi all’Unione Europea, fatta più di dieci anni fa, è una delle cause scatenanti dell’aggressione di Putin. Per loro, l’Europa non è solo un’alleanza economica, ma un’aspirazione identitaria.
E come si manifesta questa volontà di resistenza?
La resistenza civile è forse l’aspetto più impressionante. Kharkiv, una città a soli 50 km dal fronte e costantemente bombardata, devo riconoscere che è più pulita di Torino. La gente continua a tagliare i prati, a piantare fiori. Se un bombardamento danneggia un edificio, il giorno dopo sono già lì a rimuovere le macerie e a coprire le finestre con il legno. C’è un senso del decoro e della vita che non si lascia sconfiggere. I pochi lavoratori rimasti in città, al termine del turno di lavoro, di notte salgono sul tetto per dare una mano alla contraerea come civile.
La vostra delegazione ha vissuto in diretta l’attacco con droni operato dai russi su Leopoli. Cosa è successo?
Eravamo fermi alla stazione di Leopoli. Personalmente non ho sentito il sibilo dei droni, che alcuni miei compagni di viaggio hanno descritto, ma ho visto due bagliori pesantissimi all’orizzonte che hanno illuminato a giorno il paesaggio, a circa sei chilometri da noi. Subito dopo, ho visto nel cielo quello che sembrava un videogioco: batterie di puntini luminosi della contraerea che si muovevano in formazione. La critica che muovo alla narrazione mediatica è profonda: la notizia che è circolata in Italia era “110 italiani salvi”, ma quella non era la vera notizia. La vera notizia è che in quell’attacco sono morti cinque componenti di una famiglia. L’obiettivo non eravamo noi, ma un’azienda. Noi potevamo essere un effetto collaterale come tanti. Un attacco su una città così vicina al confine con l’Europa potrebbe essere interpretato come un chiaro “avvertimento” alla Polonia e, per estensione, a tutta l’Europa. È un modo per la Russia di dimostrare la portata dei suoi missili e la sua capacità di colpire in profondità, quasi a voler dire: “possiamo arrivare fin qui”.
L’Unione europea è coinvolta, accanto agli Usa nelle massicce forniture di armi e intelligence assicurate all’esercito ucraino. L’eventualità di essere attaccata è così vicina?
Il problema è che l’Europa non è stata capace in questi anni di creare un sistema di difesa comune. Di fronte a un sistema come quello russo, l’Europa rischia di essere “bucata”. Il grande assente è una politica di difesa europea integrata. Per questo ritengo che parlare di “riarmo” sia usare una parola sbagliata. La discussione non dovrebbe vertere su un generico aumento delle spese militari nazionali, ma sulla necessità di creare un sistema di difesa europeo coeso ed efficiente.
La necessità di difendersi solleva il tema delle armi. Il capo della regione di Kiev vi ha chiesto missili. Come si concilia questo con un ideale di pace?
Questo è il cuore del dilemma. Le armi possono servire per offendere, ma anche per difendersi. Gli ucraini con cui abbiamo parlato si ponevano una domanda tanto semplice quanto disarmante: «Perché io devo subire il missile della Russia senza poter provare a colpire il punto da cui parte?». Questa prospettiva, che va oltre la dimensione puramente difensiva, complica ogni visione idealistica e ci obbliga a fare i conti con la realtà di un popolo aggredito.
Nel tuo territorio, a Torino, c’è un certo dibattito sulla Leonardo e sulla conversione dell’industria verso il settore militare auspicato dai vertici della Ue. D’altronde, se le armi sono necessarie, come ci si può opporre a questa trasformazione?
È una questione che affronto non solo da osservatore, ma da amministratore locale. Se l’Italia smettesse di produrre armi, dovremmo comunque comprarle da Germania, Francia o America per difenderci. Più che un’opposizione astratta, credo che la strada sia quella di lavorare per una legislazione europea più stringente, sul modello italiano della legge 185/90 per una produzione comune che eviti la concorrenza tra Stati e razionalizzi le spese.
E da professore, dopo aver visto una guerra in atto, in che modo ti rivolgi a degli studenti che potrebbero essere chiamati ad imbracciare le armi in caso di allargamento del conflitto bellico?
Ne ho parlato in questi giorni durante un’occupazione scolastica organizzata dagli studenti in solidarietà con la Palestina, sondando il senso comune sulla difesa della patria prima ancora di un intervento militare all’estero. Ho chiesto: in caso di attacco all’Italia, un piemontese andrebbe a difendere la Sicilia da un’invasione? E un siciliano andrebbe a difendere Bolzano, a difendere gente che manco parla italiano? Le risposte non sono state entusiaste; la paura ha dominato la discussione. L’unica eccezione è stata una ragazza che ha detto: «Non riuscirei a tenere un’arma in mano, ma farei di tutto per dare una mano alla patria».
Comunque l’adesione all’iniziativa del Mean per me, e posso dire per l’Azione cattolica, non è certo quella di sostenere il riarmo e il ricorso alle armi, quanto il riferimento all’idea lanciata da Alexander Langer di istituire i “Corpi Civili di Pace”, cioè corpi non armati da inviare nelle aree di tensione anni prima che il conflitto esploda, per mediare e disinnescare le cause della violenza. L’obiettivo originario , direi “visionario”, era quello di mandare un milione di europei in Ucraina già 12 anni fa, cioè prima ancora dei fatti di piazza Maidan [che hanno dato avvio allo scontro interno in Ucraina, ndr]. Parliamo di uno strumento per prevenire la guerra, non per gestirla quando è già una follia inarrestabile. Sono rimasto sconvolto visitando uno dei 16 (16!) cimiteri di Kharkiv. La guerra non distrugge solo il presente, ma annienta il futuro di intere nazioni, sia in Ucraina che in Russia. Le lapidi raccontano la storia di un massacro generazionale che sta cancellando la parte migliore del Paese. Ho visto tombe di giovani leve e intere famiglie con mariti e mogli, entrambi militari. La guerra è un vortice che inghiotte tutto.
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