Anche Sébastien Lecornu ha gettato la spugna, ma lo ha fatto prima ancora di salire sul ring, a differenza di Michel Barnier e di François Bayrou, vecchi signori della chose publique française, i suoi predecessori a Palazzo Matignon: il giovane designato ha rimesso il mandato, e Macron – con un gesto di pietà, o di frustrazione – gli ha chiesto un supplemento di riscaldamento a bordo ring, tre giorni, sperando in un’inattesa risurrezione dopo la tragedia del suo Calvario politico, anche se tutti sanno che non incrocerà mai i guanti con un avversario come la Chambre des Députés che a gran voce, da destra e da sinistra, da Marine Le Pen e Jacques Bardella, come da Jean-Luc Mélenchon à Raphaël Glucksmann chiede elezioni anticipate e, in misura appena più discreta, le dimissioni del presidente, o la sua destituzione. Il leader de La Franche Insoumise ha definito il governo Lecornu «un corteo di zombie», mentre all’opposto la leader della destra invoca «elezioni ineludibili».
La goccia che ha fatto traboccare il vaso sembra sia stato non tanto la sfacciatezza di aver riproposto una serie di ministri che già facevano parte del governo Bayrou, ma soprattutto il richiamo di Bruno Le Maire, chiamato Oltralpe “Monsieur mille miliardi” perché, in quanto ministro dell’Economia nel primo mandato Macron, sotto la sua guida aveva visto il debito statale salire, appunto, di mille miliardi. A ben guardare è proprio l’economia in caduta libera a preoccupare i francesi, che vorrebbero un governo forte, capace di rispondere alle proprie aspettative.
Il fatto è che non è detto che le elezioni anticipate riescano a rendere governabile la Francia. Le previsioni attuali danno sì una crescita della destra, ma a scapito del centro, e senza poter raggiungere la maggioranza assoluta nel parlamento che le assicurerebbe il governo e la governabilità. Perché è difficile che, oltre alla frangia di gaullisti che l’hanno già raggiunta nelle scorse elezioni, altri pezzi del centro approdino alla corte della Le Pen e del suo delfino Bardella. E la sinistra rischia di ripetere il buon exploit delle scorse elezioni – non è detto d’altronde che riesca a rimanere unita al secondo turno –, ma senza raggiungere il livello necessario di seggi al parlamento. Ancora, i socialisti di Olivier Faure chiedono invece la nomina di un governo di sinistra che comprenda anche ecologisti e comunisti, ma senza la France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon. Anche questa compagine inedita non riuscirebbe ad ottenere l’approvazione del parlamento.
L’esito più probabile dell’attuale crisi resta comunque lo scioglimento del parlamento e nuove elezioni. Ma resta sul campo anche l’ipotesi di un passo che Macron ha sempre allontanato con un manrovescio, con evidente fastidio: le sue dimissioni da presidente della Repubblica. È vero, ciò vorrebbe dire sconfessare definitivamente il valore della democrazia presidenziale à la française, ma l’ipotesi potrebbe essere la vera soluzione del problema, se accompagnata da una riforma del sistema elettorale, che ora prevede collegi uninominali su due turni, e che manifesta evidentemente i suoi limiti fisiologici. Il gollista Lisnard chiede a Macron di riflettere sulle sue «dimissioni programmate». Tuttavia, sono poche le possibilità che passi l’idea delle dimissioni nella testa di Emmanuel Macron, e ancor meno che passino i continui appelli di Mélenchon non solo alle dimissioni, ma all’apertura di un processo di destituzione.
Tutto ciò non è comunque un buon segnale per i partner europei: quest’impasse della democrazia francese rischia di essere contagiosa, soprattutto Oltrereno. E la solitudine di Macron, che poco alla volta viene lasciato anche dai suoi amici, appare ormai invocare a gran voce l’avvio di un Requiem collettivo per il macronismo (che forse non è mai esistito, nel senso che non si è mai capito cosa fosse).