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Mondo > In punta di penna

Ma a chi può interessare il Libano?

di Michele Zanzucchi

- Fonte: Città Nuova

Michele Zanzucchi, autore di Città Nuova

A un anno dall’uccisione del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ad opera degli israeliani, il Paese dei cedri stenta a trovare un nuovo equilibrio. Ma non viene aiutato

Sostenitori di Hezbollah si riuniscono per celebrare il primo anniversario della morte dei leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah e Hashem Safieddine, a Beirut, Libano, il 25 settembre 2025. Nasrallah fu ucciso il 27 settembre 2024 in un attacco aereo israeliano contro un centro di comando di Hezbollah a Haret Hreik. Safieddine, nominato brevemente come suo successore, fu ucciso giorni dopo in un altro attacco israeliano. Ansa EPA/WAEL HAMZEH

La selva di bombe, di missili e di droni, che ha creato un impressionante cratere nel quartiere a due passi dall’aeroporto di Beirut, non solo ha annientato il leader Hassan Nasrallah e buona parte del governo di Hezbollah, milizia filoiraniana nel sud del Libano, ma ha creato uno stato di ulteriore sospensione a cui il Paese non si è ancora assuefatto. Certo, il Paese dei cedri ne ha viste di peggiori, ma l’incertezza ormai è diventata l’unica certezza nelle mani dei libanesi.

Chi circola oggi nel Paese del latte e del miele di biblica memoria, non può non chiedersi come faccia questo popolo a sopravvivere: secondo i dati dell’Onu, il Libano è in effetti diventato una delle nazioni più povere dell’emisfero settentrionale del pianeta, con 3 libanesi su 4 che sarebbero sotto la soglia della povertà. Ma il livello di vita dei cittadini, e in fondo anche degli abitanti della costa e della montagna, non appare poi così drammatico, se si escludono le notorie sacche di povertà che erano tali già prima dell’ultima guerra del 2024, quella che ha portato, appunto, all’eliminazione di gran parte del partito filoiraniano, coll’eliminazione fisica dei responsabili, ma ancor prima con la vicenda spionistica dei cercapersone e dei walkie-talkie esplosi nelle mani e nelle tasche di migliaia di militanti di Hezbollah, con gravi “danni collaterali”, che ormai non fanno più notizia.

Come mai in Libano la povertà non si vede più di tanto, fatta eccezione per la consueta trascuratezza degli abitati e delle infrastrutture, che è legata solo parzialmente all’attuale crisi? Le ragioni sono molteplici: in primo luogo il fatto che, sin dalla crisi del default dichiarato dal Libano nel 2019, perché impossibilitato a rimborsare i debiti internazionali contratti negli ultimi decenni, l’economia libanese si è reinventata creando un modus vivendi cash, cioè in contanti, con la parziale morte del sistema bancario. In secondo luogo, perché qualche segnale di rinsavimento da parte del governo sta arrivando, consentendo ai libanesi, soprattutto della classe media, di ritirare parte dei loro risparmi depositati nelle banche, che hanno aperto i cordoni almeno per somme di sopravvivenza.

Ma, soprattutto, la povertà si vede poco perché il sistema sociale libanese è basato sulle famiglie allargate, che provvedono al necessario sostentamento dei propri membri che non riescono a mantenersi. Corollario primo a quest’ultima ragione è il fatto che gran parte dei libanesi capaci di lavorare emigra altrove, mentre – corollario secondo – le rimesse dei 12 milioni di libanesi che lavorano all’estero sin dall’epoca della guerra civile e poi delle altre conflittualità susseguenti sono cospicue e, soprattutto, poco rilevabili dalle statistiche ufficiali. In soldoni, i migranti inviano i loro soldi ai familiari con mille espedienti che evitano di essere intercettati dalle sgrinfie del sistema delle dogane e delle banche.

La politica è ancora bloccata dalla contrapposizione dei tre blocchi – sunnita, sciita e cristiano, pur estremamente variegati –, ma l’elezione, dopo due anni di vuoto di potere, del presidente della Repubblica, Joseph Aoun, sembra aver riportato un po’ di serenità, e le prime mosse del capo dello Stato, eletto nel gennaio scorso, paiono andare nella direzione voluta dalla maggioranza dei libanesi – Hezbollah esclusi –, cioè la ripresa in mano del territorio da parte dell’esercito libanese, senza cessione di sovranità ai filoiraniani. Buona idea, di realizzazione quasi impossibile nel Libano attuale, che è in mano di una piccola rete di burocrati tendenzialmente mafiosi, al cui vertice vi sono i vecchi partiti tradizionali.

Ma la consueta causa della debolezza libanese sta soprattutto nel disinteresse, o addirittura nell’abbandono, da parte delle potenze regionali e mondiali, che sono concentrate su altri punti focali come Gaza e l’Ucraina, che richiedono attenzione e sforzi economici. Tutto ciò mentre il campo arabo è tramortito dall’ultima ed ennesima violazione della sovranità di Stati vicini, cioè il bombardamento di presunti capi di Hamas in piena capitale qatariota, Doha. Gli Accordi di Abramo, pensati per riavvicinare le monarchie del Golfo Persico a Israele, sono saltati per aria in mille pezzi. D’altronde, gli Stati Uniti non hanno più una chiara linea politica in Medio Oriente – salvo il parallelismo tra Trump e Netanyahu a danni dei palestinesi –, mentre la Russia ha altre gatte da pelare, e la Cina non ha nessuna intenzione di immischiarsi in affari complicatissimi.

In mezzo a tutto ciò, il patriarca maronita Boutros Raï ha annunciato, forse con un pizzico di supponenza, una prossima visita di papa Leone XIV che segue così le orme del suo predecessore Francesco, che aveva intenzione di recarsi a Beirut, ma ne era stato impedito dalle contingenze belliche. Nulla è meno certo, vista la situazione di insicurezza che si vive in Libano. A Beirut si spera in una visita del pontefice, ma si continua a vivere la vita quotidiana come se niente fosse, anche se a pochi chilometri continuano i bombardamenti libanesi, e se nelle calde notti beirutine il ronzio dei droni con la stella di Davide disturbano il sonno.

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