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Non nel mio nome, dai lavoratori la spinta alla coscienza che ripudia la guerra

a cura di Carlo Cefaloni

Carlo Cefaloni

Cosa ha generato una partecipazione così estesa in Italia alla manifestazione del 22 settembre per fermare la violenza senza fine sulla popolazione di Gaza? Intervista a Gianni Alioti di Weapon Watch

 

Manifestazione per Gaza a Roma, 22 settembre 2025. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Inevitabilmente un certo tipo di informazione si concentrerà sugli inaccettabili disordini accaduti a Milano da parte di alcuni soggetti violenti, estranei alla fiumana di persone scese pacificamente nelle piazze di tutta Italia lunedì 22 settembre 2025,  per manifestare lo sdegno verso ciò che si sta consumando a Gaza contro la popolazione civile palestinese.

Una partecipazione così estesa è stata sorprendente, anche perché non si può spiegare con la diffusione e l’adesione all’organizzazione sindacale di base che l’ha indetta, la Usb, assieme ad altri sindacati come la Cub, la Sgb e l’Usi.

Un ruolo importante in questo caso va fatto risalire all’esposizione costante del collettivo dei portuali di Genova che dal 2019 hanno cominciato a rifiutare di collaborare al carico di armi destinati in zone di guerra, con il supporto di Weapon Watch, l’osservatorio sulla movimentazione di armi nei porti europei e del Mediterraneo. È venuta così alla luce una rete internazionale di lavoratori impegnati nel rifiuto di essere parte della filiera della guerra.

Per capire meglio la dinamica di un fenomeno che si sta diffondendo abbiamo sentito Gianni Alioti attivista e ricercatore di The Weapon Watch, dopo la lunga esperienza di responsabile dell’ufficio internazionale della Fim Cisl dove ha proseguito lo storico impegno dell’unità tra i metalmeccanici per una politica industriale libera dalla produzione bellica.

Tornato da poco dal Brasile, Alioti ha partecipato al corteo di Genova che ha avuto una larga partecipazione, più estesa della manifestazione indetta dalla Cgil lo scorso venerdì 19 settembre.

Come si può spiegare una così larga e spontanea adesione di tante persone all’iniziativa per Gaza?

Provo a rispondere con una frase ascoltata in occasione della grande fiaccolata del 30 agosto con 50 mila persone che hanno accompagnato le imbarcazioni che partivano da Genova per unirsi alla Global Sumud Flotilla. Un ex parlamentare del Pci ha detto: “Se la manifestazione l’avessimo promossa come Pd e come Cgil non saremmo stati nemmeno mille persone”.

Ha colto nel segno perché, nei giorni precedenti alla fiaccolata, l’adesione immensa dei genovesi all’appello di Music for Peace e Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (Calp) di raccogliere centinaia di tonnellate di aiuti umanitari per Gaza, dimostrava la credibilità di chi lo proponeva. I portuali con le loro lotte, iniziate nel 2019 contro il trasferimento di armamenti all’Arabia Saudita, usati contro la popolazione civile in Yemen e con i recenti blocchi di carichi di armi e munizioni diretti verso Israele e gli Emirati Arabi Uniti, hanno sedimentato nella gente comune un sentimento di condivisione e solidarietà.

Ne abbiamo parlato immediatamente su Città Nuova grazie a Silvano Gianti che aveva colto la novità della cosa non compresa da tutti….

In effetti all’inizio, i portuali stessi riconoscono che avevano poche persone a sostenerli. Alcune persone da sempre impegnate in quello che definisco “pacifismo autentico e attivo”, Amnesty International e alcune associazioni e movimenti del mondo cattolico. Questi gruppi avevano colto subito l’importanza delle azioni dirette dei portuali e di quelle lotte che andavano ben al di là dell’azione in sé, assumendo una valenza simbolica ed eccezionale per il rispetto delle leggi e dei trattati internazionali che regolano il commercio di armamenti. C’è da ricordare che, paradossalmente, lo Stato italiano mentre violava le norme arrivò ad accusare il Calp di essere un'”associazione a delinquere”, mettendo in gioco la sicurezza lavorativa e familiare di alcuni attivisti.

Dunque, l’adesione di oggi supera le appartenenze?

Assolutamente sì. Quello che si sta esprimendo in queste giornate di lotta è un’adesione dal basso. È un’adesione che riscopre l’etica e fa appello alla propria coscienza. Ad esempio, l’adesione allo sciopero di oggi nelle scuole, nelle università e nella ricerca non c’entra niente con la capacità di mobilitazione sindacale, che in questi settori è minima.

Il Calp ha acquisito una certa autorevolezza che va oltre logiche di schieramento.

La manifestazione di Genova del 22 settembre è stata straordinaria anche per le persone presenti: tantissimi bambini accompagnati dai genitori, dalle madri, o dagli insegnanti, e tantissimi giovani. La maggior parte delle persone non erano dietro uno striscione o non avevano bandiere di organizzazione, a parte le molte bandiere palestinesi.

Quale è stato il contributo di Weapon Watch nel sostegno all’azione dei portuali? 

Weapon Watch nasce a supporto delle lotte dei portuali genovesi in collegamento con altri porti, identificando nella logistica il cuore della filiera bellica e il punto più vulnerabile. L’esperienza cresciuta a Genova riguardo al transito di armi nei porti ha ridato senso a questioni centrali nel contrastare le politiche di riarmo, l’economia di guerra e le stragi delle popolazioni inermi. D’altra parte, Davi Kopenawa sciamano e portavoce degli indios Yanomami del Brasile, ci definisce la “società delle merci”. Bloccare, quindi, la circolazione delle merci, in questo caso la circolazione dei materiali di armamento ha un notevole impatto sul sistema economico e i suoi interessi. È uno dei principali snodi dove si può rompere il meccanismo dell’economia di guerra o evidenziarne gli aspetti illeciti.

L’altro elemento che questa vicenda ci ha insegnato è che quando le istituzioni, anche quelle democratiche, non agiscono nel rispetto dello stato di diritto e dei trattati internazionali, rimane soltanto l’obiezione di coscienza della persona e l’azione diretta collettiva per far sì che la legalità venga ristabilita.

È ciò che è accaduto in questi giorni nel porto di Ravenna dove è stato respinto un carico di armi destinato all’esercito israeliano

Infatti la vicenda di Ravenna ha dimostrato che il transito di armamenti avviene in totale violazione della legge 185 (che regola export, import e transito di armamenti) per la flagrante mancanza di autorizzazione. Su Ravenna si sono mossi insieme i portuali delle federazioni trasporti di Cgil, Cisl, Uil.

Se guardiamo ai porti europei e mediterranei, vediamo lavoratori che si muovono nella stessa direzione senza appartenere alla stessa organizzazione.

Esattamente. Le azioni che avvengono nei vari porti non sono riconducibili a un’unicità politica o di appartenenza sindacale.

Ad esempio, i portuali del Calp genovese aderiscono in maggioranza alla Usb (affiliata internazionalmente alla Fsm), ma i portuali di Marsiglia con i quali hanno stretti rapporti sono della Cgt francese affiliata a quella che un tempo era la Cisl Internazionale (ora Ituc – Confederazione Internazionale dei Sindacati, a cui aderiscono Cgil, Cisl e Uil). A Barcellona, è l’assemblea dei portuali ad agire in un organismo sindacale unitario.

Ad Anversa nelle Fiandre, il sindacato dei portuali attivo contro il trasferimento d’armi aderisce alla Confederazione Sindacale Cristiana, il maggiore sindacato in Belgio. In Grecia, è il sindacato legato alla Federazione Sindacale Mondiale, come l’Usb. In Marocco, viceversa, i portuali che hanno bloccato il transito di materiali d’armamento a Tangeri e Casablanca verso Israele fanno parte delle tre confederazioni sindacali affiliate alla Ituc. Fuori dagli schemi di organizzazione i portuali genovesi del Calp hanno rapporti anche negli Usa con l’Iww (anarco-sindacalista) e con i Teamsters che organizzano i lavoratori dei porti del Pacifico.

La bio-diversità organizzativa di quanti agiscono su un terreno comune è importantissimo, perché fa capire che qualcosa si sta muovendo unitariamente e dal basso, al di fuori di schemi precostituiti o appartenenze.

Di fronte al dato di fatto realistico per cui non avremo un blocco totale degli armamenti—abbiamo visto quello di Ravenna, che è stato caricato su terra—e il flusso di armi difficilmente verrà interrotto, e di fronte alla situazione di Gaza, non c’è il rischio che poi a un certo punto questo movimento di popolo si disamori o lasci perdere per frustrazione?

Cercando di cogliere gli aspetti positivi di una lotta che non è risolutiva, penso che chi ha scioperato oggi o venerdì (come a Genova la Fiom, trascinando poi tutta la CGIL, che ha scioperato per 8 ore) l’abbia fatto recuperando la dimensione dell’appartenenza ad una stessa classe di lavoratori contro qualsiasi logica nazionalista.

Non si possono identificare le persone e i lavoratori con i loro governi o le loro istituzioni. Ci vuole chiarezza di impostazione, dove si capisce che gli interessi degli uni non sono gli interessi di tutti. È questo il momento di riprendere l’insegnamento di don Milani che, riferendosi al concetto di patria e nazione, diceva: «Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri»

Nessuno di coloro che ha scioperato, o partecipato ai cortei, pensa che la propria azione sia risolutiva per mettere fine allo sterminio del popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania o alla folle corsa al riarmo.

Dobbiamo essere consapevoli. Non dobbiamo essere ingenui pensando che un blocco di container carichi di munizioni ed esplosivi sia risolutivo di per sé. Però, queste azioni, partite da Genova e sviluppatesi nel tempo, devono arrivare a travolgere, prima o poi, gli attuali decisori politici che stanno portando l’umanità a schiantarsi, utilizzando risorse pubbliche nell’interesse esclusivo dei fabbricanti d’armi e dei loro azionisti.

La logica del riarmo non ammette eccezioni come da ricorrenti proclami che ascoltiamo….

Ho letto un dato inquietante: una proiezione del SIPRI. Sulla base dell’andamento delle spese militari degli ultimi 10 anni e degli obiettivi indicati dai Paesi NATO, le spese militari globali, che nel 2024 sono state 2.718 miliardi di dollari, arriverebbero nel 2035 nell’ipotesi minima a 4.700 miliardi e nell’ipotesi massima a 6.600 miliardi di dollari. Una simile prospettiva significa la fine dell’umanità.

Di fronte a simili scenari dobbiamo tenere sempre in tensione la realtà con il sogno, il disincanto con l’utopia. Se non facciamo così, c’è solo la disperazione e la passività. L’unica cosa che possiamo fare, che è già tanto, è dire: “quello che state facendo non lo fate a nostro nome, non lo fate con i nostri soldi e con le nostre menti”.

Certo, in italiano non c’è una parola che sintetizzi questo concetto. Paolo Freire l’aveva inventata in brasiliano: esperançar.

Cosa significa questo termine che appartiene alla tradizione educativa latino americana?

Non è sperare (esperar), ma significa che dobbiamo, in assenza di qualsiasi speranza, creare speranza. Dobbiamo agire per ridare speranza alle persone e all’umanità.

Alla vigilia del crollo del Muro di Berlino e della decisione di Gorbaciov di avviare il disarmo unilaterale, nessuno ci credeva. A tutti coloro che credevano nel disarmo unilaterale (come lo scrittore Carlo Cassola promotore con i “vecchi” anarchici Ugo Mazzucchelli e Umberto Marzocchi, della Lega per il disarmo unilaterale), si diceva che era ingenuo e impraticabile, che il disarmo poteva essere solo bilaterale e bilanciato. Ma se non ci fosse stata la scelta unilaterale di Gorbaciov, non si sarebbe messo in moto alcun negoziato bilaterale che portasse, come avvenuto, alla fine della Guerra Fredda e agli accordi sul disarmo nucleare e convenzionale.

Per questo bisogna sostenere profeticamente anche ciò che in apparenza non è razionale, logico o risulta impossibile.

 

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