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I dazi di Trump minacciano i dalit indiani… ma c’è altro

di Ravindra Chheda

- Fonte: Città Nuova

I dazi Usa al 50% mettono particolarmente in crisi l’industria tessile indiana: solo nel Tamil Nadu sarebbero a rischio 20 mila fabbriche e quasi tre milioni di posti di lavoro. Il premier Modi sta puntando su Giappone e Cina per stabilire nuove alleanze. Non solo economiche

Il primo ministro indiano Narendra Modi e il primo ministro giapponese Shigeru Ishiba, durante un incontro a Tokyo, Giappone, 29 agosto 2025. Ansa EPA/TAKASHI AOYAMA / POOL

L’argomento dazi-Trump è ormai una questione all’ordine del giorno fin dal momento dell’elezione del tycoon per un secondo mandato alla Casa Bianca. I vari bracci di ferro che si sono sviluppati fra il presidente americano e i vari Paesi del mondo che sono stati via via inseriti nella lista nera hanno occupato discussioni senza fine che hanno riempito – e continuano a riempire – i media e i social. In vari Paesi del mondo – l’Europa ne è un esempio lampante – ci si è impegnati in confronti politici spesso serrati e non senza scontri fra le diverse posizioni.

Ha fatto rumore, fra le tante decisioni trumpiane, quella di imporre all’India dazi del 50%. La questione finanziaria è piuttosto delicata, come lo è anche l’equilibrio dei rapporti fra Trump e Modi, che, se in passato erano apparsi sulle stesse posizioni di carattere sovranista e, a loro modo, millenarista, oggi sembrano essersi allontanati con potenziali conseguenze di carattere geopolitico. Qualche mese fa, passando da Coimbatore, mi sono reso conto del timore che si viveva in una delle città più vivaci dal punto di vista industriale ed educativo del sud India. Le paure erano legate – e lo sono ancora di più oggi – ai dazi che il presidente americano minacciava di imporre. Fin da subito, c’era il timore che potessero colpire, fra gli altri, soprattutto l’industria tessile e quella della maglieria che ha uno dei suoi poli fondamentali nello stato del Tamil Nadu, in particolare proprio a Coimbatore e nella vicina cittadina di Tiruppur. I dazi, oggi ormai realtà anche nei confronti dell’India, mettono infatti a rischio 20 mila fabbriche e un totale di quasi tre milioni di posti di lavoro.

Il distretto (provincia) di Tiruppur vanta circa 20 mila unità produttive indipendenti – molte a conduzione familiare – con circa 2500 esportatori che garantiscono quasi il 70% delle esportazioni indiane nel settore della maglieria. Recentemente, la Thiruppur Exporters Association, con non poca soddisfazione, aveva segnalato una crescita del 20% che si era registrata sia nella produzione che nelle esportazioni del periodo post-Covid, e nonostante il conflitto russo-ucraino. È opportuno notare che questa parte del sud India rifornisce mercati importanti come Stati Uniti, Regno Unito, Paesi europei, Australia, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e vari Paesi africani. In particolare, il mercato verso gli Stati Uniti garantisce il 40% di queste esportazioni, pari a quelle che prendono la strada dell’Europa. Si comprende, quindi, che un 50% di dazi su questi prodotti rischia di stroncare se non quasi azzerare questa produzione. La stessa associazione ha dichiarato che molti acquirenti del Nord America hanno fatto richiesta alle fabbriche indiane di assicurare spedizioni di qualsiasi merce pronta entro il 27 agosto, chiedendo anche di assorbire una certa quota dei dazi, cosa che molti avevano in origine accettato. Tuttavia, il passaggio dal 25% al 50% dei dazi trumpiani ha evidenziato come la stragrande maggioranza dei produttori non siano in grado di assorbire un colpo del genere. La decisione di Washington ha provocato un blocco degli ordini, accompagnato dalla richiesta di interrompere tutte le forniture dopo il 27 agosto.

La situazione è quindi molto grave per l’India in generale, e soprattutto per lo stato del Tamil Nadu. Ancora più grave, se si considera che un numero notevole di coloro che rischiano il posto di lavoro appartengono alle cosiddette categorie disagiate (Schedule Caste e Schedule Classes), che rappresentano molte comunità di dalit, i “fuori casta”, segmenti di popolazione che sono fortemente discriminati a livello sociale e che ora rischiano anche di non avere uno stipendio per la sopravvivenza.

Intanto, a margine della spinosa questione dei dazi che impegna il sub-continente in una guerra di nervi con la Casa Bianca, il premier indiano Modi si è recato in Estremo Oriente, dove ha da poco concluso una visita in Giappone, arrivando poi a Pechino. Non si tratta di mosse casuali. Qualcuno anche negli Usa aveva messo in guardia Trump che le sue decisioni, nel caso di New Delhi, avrebbero potuto spingere i due colossi asiatici e il Giappone, oltre ad altri Paesi del continente, ad allearsi economicamente e, forse, a spingersi oltre. A conferma di questo, in una conferenza stampa al termine della sua visita nel Paese del Sol Levante, il primo ministro indiano ha dichiarato che India e Giappone hanno gettato le basi per un “nuovo e prezioso capitolo” nella loro speciale partnership strategica, svelando l’esistenza di una roadmap di cooperazione decennale in diversi settori come la tecnologia e la difesa. Inoltre, il premier indiano si è detto convinto che la tecnologia giapponese e il talento indiano rappresentino una combinazione vincente, sottolineando l’importanza di sfruttare i reciproci punti di forza in un contesto di sfide geopolitiche. «Le democrazie forti sono partner naturali per plasmare un mondo migliore… Al centro della nostra visione ci sono: investimenti, innovazione, sicurezza economica, ambiente, tecnologia, salute, mobilità, scambi interpersonali e partnership tra Stati e prefetture», ha affermato il primo ministro Modi. A conferma di questo, India e Giappone hanno firmato 13 protocolli d’intesa e accordi, oltre a fissare un obiettivo di 10 trilioni di yen di investimenti in India da parte nipponica per i prossimi 10 anni.

Ed ora occhi puntati su Pechino dove Modi è arrivato alla fine di agosto per una visita di alto profilo in questo momento in cui la geopolitica mondiale appare totalmente sconvolta.

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