Oggi una comoda strada provinciale collega Trento a Cavalese, dopo aver toccato Cembra, principale centro dell’omonima valle, e più oltre – nella adiacente Val di Fiemme – Capriana. Ma duecento e più anni or sono soltanto sentieri impervi perfino per muli e cavalli costituivano l’unico collegamento con quel piccolo borgo montano, oggetto di questo itinerario. Eppure a partire dagli anni trenta dell’Ottocento diverse migliaia di pellegrini venuti non solo dal Trentino e dal Sud Tirolo, ma anche da tutta Europa, s’avventurarono verso quel sito di nessuna rinomanza e privo di ogni comfort, dove avrebbero trovato alloggio solo in qualche fienile offerto dagli abitanti.
Cosa o chi li attirava a Capriana? Un’umile figlia di mugnai che sarebbe rimasta paralizzata 14 anni per una malattia sconosciuta, contratta assistendo i colpiti da un’epidemia grave e infettiva: priva di cibo, acqua e sonno, avendo come unico nutrimento a l’Eucaristia, stigmatizzata, riviveva i dolori della passione di Cristo. Si chiamava Maria Domenica Lazzeri, ma dai compaesani e da quanti avevano sentito parlare di lei era nota anche come la Meneghina o l’Addolorata di Capriana.
Quel viavai che vedeva mescolati, accanto a semplici montanari, forestieri venuti da lontano, ecclesiastici e aristocratici, scienziati e illetterati, gente anonima e nomi illustri, poteva evocare i pastori e i Magi in cammino verso la stalla di Betlemme per rendere omaggio al Re dei re fatto Bambino. Lì però si trattava non della nascita di Cristo, ma della sua fine cruenta rappresentata al vivo da una giovane donna sanguinante da ferite simili a quelle del Crocifisso.
In quel secolo XIX, epoca di scoperte scientifiche e tecnologiche esaltanti la razionalità, la capacità dell’uomo di dominare la natura secondo i dettami dell’Illuminismo, ma che al tempo stesso registrava una eclissi del trascendente, una perdita del senso del mistero, la Meneghina rappresentava l’alternativa di un mistero d’amore, davanti al quale si sentivano invitate a piegarsi certe fronti superbe. Si avverava in lei, infatti, ciò che Cristo aveva già detto di sé: «Quando sarò innalzato (in croce) attirerò tutti a me».
«La testimonianza di questo lungo e misterioso martirio, che rendeva terrificante la sua visione ai visitatori – ha scritto di lei don Divo Barsotti – non poteva essere una testimonianza vera del Cristo se non fosse accompagnata dall’eroismo della pazienza, da una continua preghiera, dall’abbandono alla volontà di Dio e persino dalla gioia di soffrire per unirsi più intimamente a Cristo». Proprio per questa adesione, e non tanto per i doni mistici, l’atteso processo di beatificazione della Lazzeri ha preso avvio nel 2023 dopo il suo riconoscimento come venerabile dovuto a papa Francesco.

Pino Loperfido
La vicenda poco nota di questa laica dell’Ottocento, una di quelle figure nascoste che non fanno storia, ha attirato anche il giornalista e autore di romanzi e testi teatrali Pino Loperfido. Attirato almeno inizialmente da curiosità professionale, ma presto coinvolto al punto da dedicare alla Addolorata di Capriana due libri.

«Nel 1998 – racconta l’autore –, al Meeting di Rimini come giornalista a caccia di storie, ero presente alla presentazione del saggio che don Sommavilla, parroco di Capriana, aveva scritto sulla Meneghina, di cui non avevo mai sentito parlare nonostante i miei 5 anni in Trentino. Due cose mi hanno colpito delle testimonianze riportate: provenivano un po’ da tutta Europa ed erano per la maggior parte di laici: professori, letterati, scienziati come il dott. Leonardo Cloch, medico curante della Lazzeri noto anche oltre i confini del Tirolo. Ma solo dopo 20 anni di accurate ricerche ho deciso di dedicarle un libro: volevo dare un filo conduttore, una coerenza ai vari testi letti, ognuno dei quali era solo un tassello di un mosaico più ampio. L’ho fatto con la Manutenzione dell’universo (Curcu & Genovese Ass.), uscito nel 2020, e successivamente con Il dono (Edizioni del Faro), quest’anno. Da allora non sono più riuscito a liberarmene, a tal punto coinvolto da portarmi nel 2022 fino negli Stati Uniti, presso una comunità di devoti della Lazzeri del New Jersey… incredibilmente l’aria di Capriana era arrivata fin lì! Ne ho scritto anche in questo secondo libro, dove ripercorro tutta la vicenda quasi in forma di diario».
È Il dono, titolo che riecheggia quanto affermato di recente dall’arcivescovo di Trento mons. Lauro Tisi: «Domenica Lazzeri ha vissuto nella sua carne il privilegio di avere i tratti di Dio nell’amare. Non per virtù sua ma per dono e regalo: ecco la sua bellezza». Che cosa di questa figura più colpisce? È un fatto solo emotivo oppure c’è qualcosa di più profondo?
«Me lo sono chiesto anch’io molte volte. Secondo me c’è qualcosa che distingue questa figura di mistica da altri stigmatizzati: non solo per il dato di fatto che era una ragazza poverissima in un posto così periferico e che tra i fenomeni analoghi della modernità il suo rappresenta forse quello più studiato e documentato scientificamente, ma per il fascino del mistero che l’accompagna, per la sensazione che il più dev’essere ancora scoperto. Rimangono infatti, nella storia della Meneghina, anni di cui non si sa nulla, dei salti temporali che ho cercato di esplicitare nel Dono, intrecciando ricerca storica e riflessioni personali.
Certo è che i protagonisti sono due: lei e la sofferenza. Questa donna che metà della vita (è morta a 33 anni) l’ha passata in un letto la interpreto come una risposta alla laicizzazione effetto della Rivoluzione francese, risposta quanto mai attuale in una società come la nostra che tenta in tutti i modi di far scomparire la sofferenza in ogni ambito, dal mal di testa alle cure palliative: vuol ricordarci forse che la sofferenza ha un senso, anche per noi uomini del XXI secolo.
Come ho scritto nel libro, “sono queste le presenze che appaiono nei momenti di frattura, quando tutto sembra perduto. Un segno, un volto, una storia che emerge dal nulla e ci guida, senza mai rivelarsi davvero, ma sempre lì, accanto a noi, come la promessa di una redenzione che – si badi – non arriva quasi mai come la immaginiamo. È la ricerca di qualcosa che forse non troveremo mai, ma che ci spinge avanti, un passo dopo l’altro”».