Quando a proposito di un soggetto statale si ribadisce ed enfatizza l’irrinunciabile obiettivo della sicurezza, raramente si ricorda di aggiungere un circoscritto ma significativo attributo che rende l’obiettivo accettabile, sia sul piano dell’equità sia su quello della fattibilità politica: sicurezza sì, ma “reciproca”. Si dimentica, cioè, che la sicurezza è un bene relazionale. Come mostrano le drammatiche vicende della guerra russa in Ucraina e di quella israeliana a Gaza, alcuni Stati, seguono il criterio diametralmente opposto, ignorando che con l’assolutizzazione della sicurezza propria si minimizza o si azzera del tutto la sicurezza dell’Altro, Stato o minoranza che sia.
Dunque, ogni volta che nei Paesi occidentali si parla di Israele ribadendo il diritto di questo Stato all’esistenza e alla sicurezza, sarebbe opportuno completare la legittima rivendicazione di questi due obiettivi con la clausola di non ignorare l’esistenza e la sicurezza della generalità degli attori – istituzionali e sociali, collettivi e individuali – che a causa delle circostanze storiche e geografiche si trovano a intrattenere rapporti ravvicinati con Tel Aviv.
Non si tratta di una situazione semplice da gestire, data l’ampiezza del concetto di sicurezza fatto proprio dai governi israeliani, tra loro differenziati per ideologia, ma nei fatti convergenti nel difendere un’interpretazione irriducibilmente unilaterale. Con il governo di Netanyahu, questo concetto ha raggiunto – per intrinseca convinzione del premier, ben più che per l’alibi offertogli dai partiti ortodossi che lo incalzano – dimensioni ineguagliate per vastità e intransigenza.
Ora, nessun osservatore equo e razionale può negare che Israele abbia un problema di sicurezza. Che cioè il suo apparato statale, il suo sistema politico, sociale ed economico, la sua popolazione, e tutto quanto lo definisce come un sistema Paese si trovi a fronteggiare un serio e prolungato problema di sicurezza all’esterno e in parte anche all’interno dei suoi (peraltro mobili) confini. Esistono fattori oggettivi oltre che soggettivi i quali, gestiti da un’élite politica la cui strategia si basa sul conflitto permanente, sospingono Israele verso il modello di quello che il politologo americano Harold Lasswell chiamava lo Stato-caserma.
Dove gli osservatori si dividono è sulle responsabilità storiche di questa situazione, la cui origine risale al Sionismo, in coerenza o meno con i principi iniziali. Si tratta di questioni di estrema complessità, riconducibili in ultima istanza alle aspirazioni di “un popolo senza terra per una terra senza popolo”, l’equivoco ottocentesco che nel tempo si è rivelato causa di drammatiche ripercussioni per entrambi i popoli, quello palestinese e quello israeliano.
La prima di esse si manifesta con l’unilateralismo delle decisioni di Israele e con il ricorso alla forza nelle azioni di entrambe le parti. A partire dalla proclamazione nel 1948 di uno Stato indipendente mononazionale, monoetnico e indirettamente anche monoreligioso, immediatamente seguìta dalla guerra mossa dai principali Stati arabi, si è andata consolidando l’indisponibilità/impossibilità di elaborare e attuare una soluzione condivisa sia con l’universalità dei vicini (e non solo con alcuni), sia con la minoranza inglobata nei confini del nuovo Stato. Quest’ultimo aspetto è grave e per molti versi sorprendente. Ovvero il mancato o insufficiente riconoscimento da parte di Tel Aviv dell’esistenza di un soggetto umano, sociale e politico di oggettiva rilevanza, se non altro per il fatto di risiedere nelle medesime terre e nelle medesime città: i palestinesi.
La sottovalutazione di questo dato ha generato una lunga sequenza di decisioni e azioni unilaterali che hanno progressivamente avvelenato un rapporto già problematico alla nascita. Dalla mancata applicazione degli accordi di Oslo del 1993 (soprattutto a causa della strisciante colonizzazione della Cisgiordania, ufficialmente assegnata all’Autorità Palestinese in condominio con le colonie ebraiche già esistenti), passando per la prima (1987) e la seconda Intifada (2000), si è pervenuti all’escalation che ha avuto il suo culmine nell’eccidio del 7 ottobre 2023 perpetrato da Hamas.
Pur necessaria, di per sé la ricostruzione storica non è sufficiente ad affrontare i problemi. Spiegata la loro genesi, resta da chiarire il contesto di oggi. In ogni caso ciò significa passare dall’analisi alla valutazione strategica, e quindi spostarsi da un ambito sostanzialmente solido (fondato su documentati stati di fatto) a un ambito aleatorio come quello degli stati del mondo preferiti e desiderati. Qui la divaricazione tra molteplici proposte è assoluta, promuovendo obiettivi non semplicemente differenti, bensì antagonistici e che si escludono a vicenda. La paradossale convergenza tra le posizioni dell’estremismo israeliano e quelle dell’estremismo palestinese è testimoniata dalla rivendicazione di uno Stato che, per gli uni come per gli altri, dovrebbe estendersi “dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo)”.
Viceversa, la soluzione prevista dalle posizioni più equilibrate presso gli uni e gli altri è quella ben nota “due popoli due Stati”, ufficialmente adottata dagli Accordi di Oslo, reiterata in varie risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e ribadita in questi ultimi tempi dall’Unione Europea e dagli Stati ad essa aderenti. Una soluzione che, invece, viene attivamente boicottata mediante la politica degli insediamenti realizzati ininterrottamente nell’ultimo trentennio. Il colpo di grazia viene inflitto nell’agosto 2025 dal governo Netanyahu con il piano di 3.400 insediamenti, finalizzati a separare definitivamente Gerusalemme Est dalla Cisgiordania ovvero, nelle parole del ministro ultraortodosso Bezalel Smotrich, a «seppellire l’idea di uno Stato palestinese».
Mentre la separazione geografica è l’ulteriore cuneo per affossare la soluzione a due Stati, il baratro politico approfonditosi tra i due popoli con la guerra di Gaza ha come prima conseguenza la definitiva archiviazione dell’alternativa rappresentata da una comune convivenza in un unico Stato. In antitesi al sabotaggio della destra, in Israele l’opposizione di sinistra continua a ribadire l’obiettivo dei due Stati. L’argomentazione è che una piena entità statale palestinese, con garanzie di responsabilità, legalità e solidità monitorate dalla comunità internazionale, contribuirebbe proprio alla sicurezza degli israeliani. Secondo il leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid, «guardando al futuro, tra dieci anni, la soluzione migliore è che Israele si separi dai palestinesi in un modo che contribuisca alla sicurezza di Israele».
Se lo Stato ebraico deve fronteggiare il problema della sicurezza, le politiche dei governi guidati da Netanyahu stanno alimentando, non attenuando, la sua insicurezza. Viceversa è (o almeno lo era prima del 7 ottobre 2023) potenzialmente meno drammatica la situazione relativa al riconoscimento della sua esistenza.
Alla vigilia di due eventi catastrofici quali l’operazione Al-Aqsa e la guerra di Gaza (allargatesi agli ulteriori fronti aperti da Tel Aviv con i propri nemici in Libano, Siria, Yemen e Iran), per la maggioranza dell’opinione pubblica araba la percezione di Israele si stava normalizzando. Dato che stupisce alcuni osservatori occidentali, attardati in un atteggiamento di superiorità da “orientalismo”, i cittadini dei Paesi arabi seguono le vicende internazionali e, sollecitati in indagini demoscopiche che diano garanzie di serietà e tutela della privacy, esprimono il proprio parere in forme e intensità non diverse da quelle riscontrate in Europa.
A queste conclusioni di metodo è pervenuta la ricerca realizzata dall’Archivio Disarmo per il ministero degli Esteri italiano, sviluppatasi lungo due direttrici: da un lato un’analisi secondaria dei dati di sondaggi d’opinione condotti da accreditati istituti di ricerca su campioni rappresentativi di Paesi arabi; dall’altro l’analisi diretta di quasi 7.000 messaggi di Twitter (poi X) sul tema Accordi di Abramo, pubblicati nel settembre 2020[1].
Nel merito, tra i vari risultati interessanti, due spiccano per la loro rilevanza. Non un’entusiastica adesione, bensì dell’accettazione di una situazione, rispetto alla percezione di Israele emerge che, all’irriducibile sentimento di contrapposizione espresso dalla dizione “entità sionista”, negli ultimi anni si era andata sostituendo una definizione più equilibrata della controparte, espressa nell’uso dei termini “Israele” e “Stato di Israele”.
Contemporaneamente, peraltro, era emersa la diffusa impopolarità dei cosiddetti “Accordi di Abramo” patrocinati dalla prima amministrazione Trump. Infatti la stipula di paci separate con Israele da parte di singoli Stati arabi senza citare la questione palestinese, era stata gestita dal genero di Trump, Jared Kushner. Nel 2020 avevano firmato quattro Paesi Arabi (Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Sudan) e nell’autunno 2023 stava per firmare la pace separata il più importante di tutti, l’Arabia Saudita. Su 33.300 intervistati, l’85% degli oppositori degli Accordi di Abramo citavano l’occupazione e repressione dei diritti dei palestinesi da parte di Israele (Arab Center for Research and Policy Studies).
Non meno interessante la percezione di Hamas, quale veniva rilevata dal sondaggio commissionato dall’autorevole rivista internazionale Foreign Affairs ed eseguito dal network di ricerca Arab Barometer. Il sondaggio, per mera coincidenza conclusasi nei primi giorni dell’ottobre 2023 a Gaza e in Cisgiordania, mostrava che nella Striscia il sostegno per l’organizzazione islamista non andava oltre il 25 % scarso della popolazione.
Anche se emerso con forza dirompente nelle relazioni internazionali del nuovo secolo, l’unilateralismo non costituisce una situazione inedita. È piuttosto una situazione ricorrente nell’ambito strategico, come sottolinea “il dilemma di Jervis” (dal nome di Robert Jervis, il politologo che lo sintetizzò quasi mezzo secolo fa): «Le politiche che aumentano la sicurezza di uno Stato tendono a diminuire quelle degli altri». Un principio auto-evidente ma spesso ignorato dai governanti, specie da quelli che vedono in bilico il proprio potere.
[1] Il Rapporto di ricerca di Archivio Disarmo, Valutare la pace. L’opinione pubblica araba di fronte agli “accordi di Abramo”, è consultabile in: https://www.archiviodisarmo.it/view/bvHwsMvYGovjIfI3-pSq1koS5dWNJykqoUths fS5jmQ/iriad-review-07-08.pdf). V. anche F. Battistelli e A. Ricci, Pace e guerra a Gaza: tra governi e popolazioni. Gli “Accordi di Abramo” e l’opinione pubblica araba, consultabile in: https://www.archiviodisarmo.it/view/DyKl9CmzFhV YiyoCFgCWDa_7q8FPz-cUYy0tu0xMle4/iriad-11-23.pdf).