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Costruire la cultura dell’infanzia

di Tamara Pastorelli

Tamara Pastorelli

In dialogo con Riccardo Bosi, pediatra e autore del libro Le mille e una infanzia, recentemente edito da Carocci. Un prezioso strumento per risvegliare e stimolare in ogni adulto (anche in chi i figli non ce l’ha!) l’attenzione e le responsabilità verso il trascurato mondo dei bambini, per contribuire a costruire una rinnovata cultura dell’infanzia.

È nato nella città porto di Livorno, ma è romano d’adozione. Qualcuno sospetta che il mare gli scorra dentro, al posto del sangue. Di certo si confonde con l’inchiostro della sua penna, quando scrive. Firma nota di Città Nuova, Riccardo Bosi è un pediatra di più che trentennale esperienza.

Nella Capitale lavora in strutture del Servizio sanitario nazionale dedicate a minori migranti e vulnerabili. È docente di pediatria alla Sapienza Università di Roma e alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium di Roma. Svolge attività di formazione su temi di etnopediatria e collabora con alcune ONG in azioni umanitarie e di accoglienza alla frontiera.

L’editore Carocci ha recentemente pubblicato il suo libro Le mille e una infanzia: bambini, culture, migrazioni. Un volume denso, dove in dialogo con altri studiosi dell’età evolutiva ci guida alla scoperta delle diverse infanzie di oggi. Un libro che coinvolge e un po’ sconvolge. Che responsabilizza il lettore, richiamandolo all’azione, sottolineando l’urgenza di rimettere i bambini al centro delle nostre comunità. Un libro che responsabilizza anche chi i figli non li ha, perché propone una “genitorialità diffusa”.

Così, dal desiderio di approfondire e capire, è nata l’idea di questa intervista.

Riccardo, partiamo dall’inizio: cosa ti ha spinto a scrivere Le mille e una infanzia?

Le mille e una infanzia è un libro che nasce dall’ascolto profondo di un adulto verso i bambini, con lo spessore, la limpidezza e la capacità di raccontarsi che hanno, se solo ti poni alla loro altezza. Un pediatra, nel corso della sua vita professionale, ne segue tantissimi e per lungo tempo, spesso fino all’adolescenza. Ognuno di loro ha una storia, è un mondo, un unicum. Ho cominciato a raccogliere e scrivere le loro storie molti anni fa, ma solo dopo mi sono reso conto che rappresentavano testimonianze preziose. Penso ai bambini e agli adolescenti migranti: certi traumi, certi loro viaggi, i segni di tortura dopo il passaggio dalle carceri della Libia non sono solo storie ma documenti che a distanza di tempo avranno tutto il peso ed il valore storico di “documenti raccolti sul campo”. È da queste “storie” che ho cominciato a riflettere sull’infanzia, dialogando con gli esperti, esplorando tutto l’arco del viaggio dei bambini.

Infatti, tutto il tuo libro è attraversato da una metafora che direi molto tua: quella del viaggio per mare…

La metafora della navigazione è preziosa, contiene mille spunti e l’ho mantenuta per tutto il testo. Il viaggio per mare è quello che secondo me più assomiglia all’imprevedibilità della vita. Dalle acque tranquille del piccolo laghetto materno, ogni bambino attraversa mille mari fino al periglioso mare dell’adolescenza, prima di approdare alle terre della vita adulta. Questa idea del viaggio, inoltre, ci fa superare la categorizzazione tra adulti e bambini e ci ricorda che c’è un unico timoniere e siamo noi, semplicemente abbiamo cambiato età; ma non ha senso una contrapposizione adulti-bambini. Il viaggio ci restituisce perciò quello sguardo che noi pediatri chiamiamo “longitudinale”: ciò che accade nell’infanzia resterà per sempre, anche nella vita adulta. Quando ci dimostriamo incapaci di progettare una società futura a misura di bambino, in realtà, stiamo tradendo il bambino che siamo stati.

Quali sono i mari tempestosi che oggi possono mettere a dura prova lo sviluppo dei nostri bambini?

I mari tempestosi da navigare per “i nostri bambini” sono molti. Penso ad esempio al fenomeno della “adultizzazione precoce”: non è giusto far sbarcare troppo presto i bambini dal magico bastimento dell’infanzia, perché è questo un tempo unico per depositare nel salvadanaio della loro mente plastica e assorbente, esperienze, conoscenze, cultura, bellezza, gioco libero, arte, letture, fiabe, stili di vita buoni; offrire relazioni significative e ricche di affetto. Un bagaglio prezioso che resterà per tutta la vita. Ricordiamoci che, se per noi questa è un’opzione possibile, per milioni di bambini non lo è. Penso alle spose bambine, pratica permessa in molti Paesi del mondo, che chiude loro per sempre la porta dell’infanzia; o ai ragazzini che si ritrovano a 8 o 9 anni a scavare le terre rare per i nostri cellulari nelle miniere, a tessere tappeti, a cucire scarpe. Eppure, anche da noi accade qualche cosa di analogo, se pur molto meno grave, ovviamente; ma è pur sempre una forma sottile di violenza all’infanzia.

Tu ne hai incontrati di bambini che hanno vissuto queste cose?

Li ho visti quando ho fatto i viaggi per lavoro in Camerun e in Uganda. Quei bambini non li vedremo mai, a meno di andare sul posto, ed è un’esperienza che lascia il segno. In Europa arrivano invece molti “minori stranieri non accompagnati”, ragazzi in fuga da mondi poverissimi, da guerra e carestie, sui quali la famiglia investe indebitandosi con i trafficanti per offrire loro una chance e anche aspettandosi di ricevere denaro al momento in cui, dopo viaggi terribili, cominciano a lavorare.

Una cosa che sottolinei fortemente è che in generale si fatica a mettere al centro del discorso e dell’agire politico i bambini e i loro diritti…

Sì, è giustissimo. Non pensiamoli solo oggetto di cure mediche, vediamoli come adulti del futuro, vanno pensati e rimessi al centro dei nostri pensieri, scelte, investimenti, strategie; da tutte le professionalità. Penso agli urbanisti: una città, una scuola, una strada possono essere o non essere a misura di bambino, dipende da noi. La polis del futuro sarà abitata dai bambini di oggi, questo è il concetto di fondo! A mio parere il vero politico non è quello che ti fa la legge per i prossimi sei mesi, ma che sa progettare una società del futuro; è la politica più scomoda, perché non porta grandi soddisfazioni nell’immediato, che ha bisogno di coraggio, di lungimiranza e visione per immaginare qualcosa che ancora non c’è; un futuro sostenibile, dove l’inquinamento ambientale sia ridotto e il pianeta terra non sia distrutto del tutto. Siamo inorriditi e straziati per la sorte dei bambini di Gaza e per i più poveri ma poi le nostre città sono invivibili per i nostri, non ci sono spazi di gioco a loro misura, molte scuole cadono a pezzi. E noi continuiamo a non fare scelte rigorose per loro.

Nel racconto tu intrecci tante voci e punti di vista: c’è la tua, quella della tua esperienza, ci sono le voci degli studiosi con cui entri in dialogo e poi ci sono quelle dei bambini che hai curato, con le loro storie. Tu cosa hai imparato da loro? Cosa possiamo imparare ascoltando i bambini?

Ritengo Le mille e una infanzia un libro collettivo. Sul mio veliero ho imbarcato più voci possibili. Dagli studiosi d’infanzia ho cercato di farmi interrogare, ho provato ad aprire varchi interpretativi nuovi. Ti faccio due esempi.

Malinowski è un antropologo che – così come Marcel Mauss – ha indagato il tema del dono e dello scambio come promotore di legami sociali. Nel suo Argonauti del Pacifico occidentale osservò come nell’arcipelago Trobriand esistesse uno scambio rituale tra le isole (chiamato “kula”), di collane rosse e braccialetti bianchi capace di creare la società. Quando i nostri bambini giocano a scambiarsi le figurine o fanno mercatini, ci stanno riproponendo qualcosa di simile. «Se ti do dieci figurine, tu dammi uno scudetto». L’economia dei bambini nasce dal baratto, è funzionale al creare legami e amicizia. Invece, noi grandi rischiamo di rovinare quella magia comprando magari troppe figurine tutte insieme.

Un’altra idea è quella della ghianda, una intuizione del grande psicoanalista junghiano James Hillman. Ognuno di noi nasce con una propria ghianda – chiamatela vocazione, disegno, carattere – che ogni adulto o genitore dovrebbe custodire e rispettare perché possa diventare un giorno un grande albero, unico e irripetibile. La parola “custodia” è bellissima: che cosa vuol dire? Che è importante proteggerlo ma con tutto il rispetto per l’identità di quel bambino. Porsi alla giusta distanza, lasciandolo libero di sbagliare, provare, ricominciare.

Poi, dai bambini ho imparato il coraggio, la sincerità, la capacità di agire in modo prosociale e senza pregiudizi. Le ricerche ci dicono che da bambini non diamo peso al colore della pelle o ai difetti fisici o agli handicap. Dai bambini si può imparare moltissimo, perché hanno un modo speciale di guardare l’esistenza. La parola educare viene da educěre, “estrarre” ciò che c’è, non imbottire di concetti e di prescrizioni. Ma funziona solo se ci sintonizziamo con i bambini ascoltandoli davvero, a lungo, con attenzione, prendendoli sul serio.

Non ti sembra che, talvolta, i bambini ci facciano paura?

Sì, sono d’accordo. D’altronde, i bambini sono esigenti, richiedono tempo, cura, coerenza di comportamenti. Non è facile stare davanti ad un bambino, ma è un grande l’occasione per un bell’esame di coscienza. Ogni bambino che nasce scombussola le nostre vite, crea ruoli e assegna compiti; improvvisamente si diventa genitori, si creano quattro nonni, un fratello o magari una sorella, altri diventano zii o cugini. La genitorialità non è uno scherzo, va sostenuta, ci vuole un “intero villaggio” per educare un bambino.  Poi, noi abbiamo paura anche del bambino dentro di noi, quel puer di cui parla Jung e che ci abita. È la dimensione della leggerezza, della curiosità, della limpidezza, del coraggio, della creatività. Diventando adulti tendiamo a posizionarci in quella dimensione psichica che Jung chiamava il senex, con la sua propensione alla stabilità e alla chiusura. Diventiamo un po’ dei Capitan Uncino e, allora, arrivano i bambini a stuzzicare il Peter Pan dentro di noi. Cogliamo questa opportunità!

C’è infine una dimensione politica di tutto questo. Tutti i bambini – tutti, anche quelli delle seconde generazioni di stranieri – con la loro mente vulcanica e capace di nuove intuizioni e invenzioni, rappresentano un giacimento d’oro, eppure se ne parla troppo poco. Bisognerebbe inventarci degli “Stati generali dell’infanzia”, tutta una società adulta intorno all’infanzia e chiedersi: siamo capaci di progettare il futuro partendo dai bambini di oggi? Invece, facendo finta di nulla, giochiamo alla guerra, per poi scoprire che in Italia sono triplicati i loro accessi al pronto soccorso psichiatrico. Con il loro disagio mentale i bambini ci stanno dicendo qualcosa di importante. Sapremo agire, con coraggio e determinazione?

DI MEO/ANSA

Secondo l’ultimo rapporto pubblicato dall’UNICEF, quasi mezzo milione di bambini in Europa e in Asia centrale vive in strutture di accoglienza. Dall’altra, in Italia si apre alla possibilità delle adozioni internazionali ai single, proposta che ha generato posizioni contrapposte e antitetiche. Nel tuo libro parli di “famiglia-porto”, ma anche di una genitorialità allargata e diffusa. Cosa intendi?

La famiglia-porto rientra nella metafora del mare. Chi va per mare sa cos’è un porto: è il luogo della sicurezza, da cui si parte, si transita e prima o poi si ritorna per l’ormeggio; luogo dove approdano le navi con le loro merci avvengono scambi e traffici. È un luogo metaforico molto forte, se applicato alla famiglia, dove un bambino fa carena se la sua piccola nave ha subito danni, dove può scendere a terra, recuperare energie, ripartire per posti nuovi. La famiglia-porto è anche una metafora della genitorialità diffusa. Nel porto non trovi solo due persone, trovi una comunità intera che accoglie. Oggi sappiamo che la genitorialità non è solo biologica; si parte da lì, ma si può arricchire con una “genitorialità culturale”. Ognuno di noi può essere genitore a pieno titolo, può accudire un bambino in qualche modo, anche se non ha figli.

Sul tema della adozione, bisogna ricordarsi sempre che si tratta di dare una seconda possibilità, dare una nuova famiglia a un bambino che non ce l’ha, che l’ha persa o non l’ha mai avuta. Non viceversa. Questo nasce dal supremo interesse del minore (art. 3 della Convenzione ONU sull’infanzia e l’adolescenza). Da qui è necessario partire: poter offrire quella seconda chance più completa, adeguata possibile. È un discorso delicato e complesso, impossibile da liquidare in poche righe.

Secondo il XV Atlante dell’Infanzia a rischio di Save the Children, i minori in povertà assoluta in Italia sono 1 milione 295mila, pari al 13,8% del totale. L’8,5% del totale delle bambine e dei bambini vivevano in povertà alimentare. Il 9,7% della stessa fascia d’età ha sperimentato la povertà energetica, cioè ha vissuto in una casa che non era adeguatamente riscaldata. Spesso queste sono le condizioni di vita di molti minori figli di famiglie immigrate nelle nostre città. Cosa comportano queste deprivazioni per il loro futuro?

La povertà reale e culturale è una non risposta ai diritti fondamentali dei bambini. La bussola assoluta, in questo campo, è la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Convention on the Rights of the Child – CRC). Ogni povertà, reale o culturale, tarpa le ali a quei bambini che nel libro chiamo “farfalle dalle ali di piombo”, sono quelli che vedo nel mio lavoro ogni giorno. In Italia non si muore, ma questi bambini volano poco, basso, a corto raggio. A scuola andranno peggio, e la bassa scolarizzazione porterà a lavori peggiori; la loro salute sarà più fragile, a causa di cibi spazzatura e abitazioni fatiscenti. Poco sport, pochi libri, pochi film, poche fiabe, poco gioco, niente mare o montagna: povertà educative gravissime. È la battaglia di Save the Children, con cui collaboro molto.

Tu chiami “ambasciatori di mondi lontani” i bambini figli delle seconde generazioni di migranti, che hanno l’imprinting culturale della famiglia e del paese d’origine ma che crescono in Italia. Secondo la tua esperienza, come possiamo favorire la loro integrazione e, dall’altra, valorizzarne le culture di provenienza?

Sulla base dell’esperienza della etno-psichiatra francese Maria Rose Moro, le seconde generazioni vivono tra due mondi. La “culla culturale” dei bambini mètisse (meticci) coincide con quella della famiglia in cui nascono, le cui radici sono marocchine, cinesi, afgane o nigeriane. Nascono in Italia, ma è come se vivessero per i primi anni in un’ambasciata straniera, respirando e assorbendo cibo, cultura, idee, lingua, credenze, miti e religioni che coincidono con quelle dei genitori. Poi, ad un certo punto, escono dal piccolo mondo della famiglia, vanno all’asilo e a scuola, entrano in contatto con una civiltà altra. E imparano subito la lingua italiana, meglio dei genitori. Così, si assiste ad una “inversione dei ruoli”, ed il bambino, magari a dieci anni, padroneggia la lingua e diventa il sapiente di casa.

La Moro sostiene – e io sono d’accordo – che è necessario salvare questi loro due mondi, senza metterli in contrapposizione. Invece, il messaggio che passa, spesso anche a scuola, è: «Siamo noi che ti insegniamo finalmente la cultura giusta. Lascia perdere quello che ti dicono i tuoi genitori». Ma restano bambini, hanno diritto all’amore dei loro genitori, che devono poter stimare. Spesso, durante le mie visite, cerco di valorizzare tutto questo, mi faccio spiegare la loro religione o cultura. E vedo che i genitori ne sono felicissimi.

In un’Italia ormai multiculturale non si può tornare indietro, la migrazione va gestita e prima lo facciamo e meglio è. Partire dai bambini sarebbe saggio, e più facile. In Francia hanno sperimentato nelle banlieue, prima di noi, quanto la voglia di riscatto delle generazioni che si sono sentite escluse e di cui non abbiamo avuto cura, si sia trasformata in radicalizzazione, guerriglia e violenza urbana. Ti rivendo un’idea bellissima, non ricordo dove l’ho sentita: «Una città è sicura se si-cura dei suoi abitanti». Partendo dai bambini, gli abitanti più giovani.

Vorrei chiudere questa chiacchierata citandoti. Tu scrivi: «È tempo di reti e di alleanze con genitori e insegnanti, con le organizzazioni non governative e con la società civile. I bambini appartengono alla loro famiglia e sono curati dai pediatri, ma al tempo stesso appartengono a tutti noi: sono il nostro bene comune».

Confermo qui pienamente questa affermazione, che ci riporta al villaggio globale, alla genitorialità diffusa, alla bellezza e alla fortuna di avere bambini tra i piedi e che, tra l’altro, «ci salvano l’anima» come sosteneva Dostoevskij.

E vorrei chiudere ringraziando te per questa intervista, in cui sei riuscita a tirarmi fuori le cose più profonde e più toccanti del mio lavoro, del mio mondo, delle mie passioni. Buon vento a te, Tamara, e buon vento a Città Nuova, rivista con cui collaboro da molto tempo condividendone i valori, basati su quell’ideale di un mondo più fraterno, giusto e “internazionale” che è alla radice dei Focolari ed è stato il sogno anticipante della sua fondatrice, Chiara Lubich, che di multiculturalità e di mondo unito parlava già negli anni ‘70.

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