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Rifugiati afghani: parliamone ancora

di Daniela Bignone

Daniela Bignone, autore di Città Nuova

Accanto al dramma insostenibile che vive la popolazione di Gaza, ci sono troppe altre crisi umanitarie estreme che non vanno dimenticate. Tasselli di un puzzle fatto di colori scuri, talmente diffuso che può farci correre il rischio di rifugiarci nell’assuefazione e nell’indifferenza. Parliamone ancora, parliamo anche dei rifugiati afghani.

Rifugiati afghani si preparano a riattraversare il confine verso il loro Paese a chaman, in Pakista. Foto Ansa/Epa 12268541

L’Agenzia delle Nazioni Unite che dal 1950 tutela il diritto e il benessere dei rifugiati in tutto il mondo (Unhcr-Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati) definisce quella afghana “una crisi senza fine”. Dopo quasi 4 decenni di conflitti, l’Afghanistan continua ad essere una delle emergenze umanitarie più gravi al mondo. A povertà, diritti umani calpestati, disastri naturali ricorrenti e devastanti si aggiungono gli enormi problemi del rimpatrio di milioni di profughi.

L’esodo aveva conosciuto due ondate principali: la più ampia a partire dal 1979 ai tempi dell’invasione sovietica, la seconda con il nuovo avvento dei Talebani nel 2021. Secondo il rapporto 2023 dell’Unhcr, circa 6,4 milioni di afgani vivono all’estero e costituiscono una delle più grandi popolazioni di rifugiati al mondo (insieme a siriani, ucraini e venezuelani). Senza contare gli oltre 4,1 milioni di sfollati interni. La prima meta dei fuggitivi sono stati i Paesi confinanti, terre di transito verso la tristemente famosa rotta balcanica che negli anni è stata percorsa da migliaia di profughi.

Ma dal 2023 Iran e Pakistan hanno cominciato a rispedirli indietro. Il governo di Islamabad ha lanciato un “Piano di rimpatrio degli stranieri” e già più di un milione di persone sono tornate in Afghanistan lasciando i campi profughi del Pakistan.

Non si conosce il numero esatto di afghani presenti in Iran: l’Unhcr e il governo iraniano suggeriscono che siano fra 3 e 5 milioni, di cui circa 780 mila rifugiati registrati e il resto privi di documenti o al massimo forniti di permessi di soggiorno temporanei. Gli afghani sono anche la nazionalità più rappresentata nelle carceri iraniane (il 95% dei detenuti stranieri) dove vengono trattenuti con le accuse di traffico di droga, furto e attraversamento illegale del confine. Secondo Iran Human Rights (iranhr.net), nel 2024 è stata eseguita la condanna a morte di 80 afghani e di almeno altri 25 nei primi mesi di quest’anno. Il Parlamento iraniano sta imponendo una riduzione della “popolazione straniera” del 10% l’anno ed è stata completata la costruzione dei primi 10 chilometri di un muro di cemento che andrà a sigillare la parte nord-orientale del confine tra Iran e Afghanistan, quella più utilizzata dai migranti afghani.

Ma la narrazione delle autorità iraniane sui profughi presenta un quadro ben diverso rispetto alla realtà: il quotidiano Teheran Times parla di un’attiva collaborazione con il governo di Kabul per «sostenere i cittadini afghani desiderosi di tornare nella madre patria volontariamente e dignitosamente». E dichiara che dal 21 marzo al 27 giugno 2025 siano stati 717.658 gli afghani che sono tornati in patria, più dell’80% di propria volontà. Teheran «assicura così a chi resta la possibilità di usufruire di maggiori servizi e benefici».

Il quotidiano The Kabul Times replica da parte sua che molti rifugiati afghani in Iran – sia legali che clandestini – incontrano notevoli difficoltà nell’accedere ai propri conti bancari, nel trasferire rimesse, nel recuperare beni e nel gestire le loro proprietà. Sono cioè privati dei loro diritti fondamentali sui beni personali.

Il fatto è che in Afghanistan i rifugiati non ci vorrebbero tornare. Chi torna deve ripartire da zero: non ha casa, documenti, legami e il Paese è chiaramente impreparato ad accoglierli, vivendo in una situazione già fragile e precaria.

C’è poi chi tenta ancora la via dell’Occidente. Pochi giorni or sono (Avvenire del 26 luglio) 81 afghani sono approdati anche in Italia, a Leuca in Puglia, dopo un lungo viaggio, l’ultimo tratto in barca a vela da Bodrun, in Turchia: 16 di loro hanno meno di 10 anni. Occorre conoscere e far conoscere le loro vicende, anche per non togliere loro quello che la Corte Europea dei Diritti Umani definisce come “diritto alla speranza”.

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