Il periodo che stiamo vivendo è caratterizzato da un vero e proprio caos geopolitico. Non si sa che cosa può succedere da un giorno all’altro, mentre si continua ad assistere – ed è assurdo che non si possa fare nulla – alla strage sistematica di palestinesi a Gaza e a quella reciproca della guerra Russo-Ucraina, altrettanto assurda. Ma la presenza di altre tensioni, come quella fra Thailandia e Cambogia, ci aiuta a capire come gli equilibri geopolitici stiano cambiando a livello mondiale, in un clima dove, fra l’altro, la finanza continua ad essere padrona della situazione. Basta vedere quanto tempo, spazio, energie sta prendendo la politica dei dazi imposti dagli Stati Uniti, senza considerare i rischi per la stabilità economica a livello mondiale già di per sé precaria.
In questo panorama, spesso, soprattutto da parte occidentale (e mi riferisco all’Europa), si perde di vista l’importanza nevralgica di una parte di mondo – il Sud-est asiatico – che si troverà ad avere un ruolo centrale in alcuni equilibri globali. Infatti, come fanno osservare due analisti in un attento articolo pubblicato sulla rivista Foreign Affairs, più di altre parti del mondo, in tempi recenti, il Sud-est asiatico si è ritrovato al centro della crescente rivalità tra Stati Uniti e Cina. Non si tratta, come spesso si crede, di una regione marginale. In quanto a popolazione, per esempio, in questi Paesi vivono circa 700 milioni di persone. Attualmente, gli equilibri dei principali Paesi dell’Asia sembrano ben definiti: Giappone, Corea del Sud e Taiwan sono tutti saldamente dalla parte degli Stati Uniti; l’India sembra allinearsi con gli Stati Uniti, ma ha una lunga amicizia con la Russia e una tradizionale tensione con la Cina; il Pakistan sta ovviamente con la Cina; e anche i paesi dell’Asia centrale stanno stringendo legami sempre più stretti con Pechino. A fronte di questo quadro che appare abbastanza stabile, gran parte del Sud-est asiatico sembra rimanere incerta. La superpotenza che riuscirà a convincere i Paesi chiave del Sud-est asiatico – Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam – a rimanere fedeli alla propria linea avrà maggiori possibilità di realizzare i propri obiettivi in Asia.
Per ora, molti di questi Paesi hanno avuto la tendenza a cercare di essere amici di tutti, di ritardare il più possibile il momento di fare una scelta precisa, che significherebbe sposare la linea politica ed economica di una delle grandi potenze e, allo stesso tempo, escluderne altre. La cultura di questa parte di mondo è disponibile alla mediazione inclusiva piuttosto che all’esclusione tout court. Ovviamente, Pechino e Washington hanno fatto della loro rivalità il fatto dominante della geopolitica globale e, dunque, anche di questa parte di mondo. I tentativi a ripetizione di conquistarsi le simpatie di uno o l’altro di questi Paesi, non sono finora andati a buon fine. La partita resta aperta, come già in un recente passato affermava il primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loon: «Penso che sia molto auspicabile per noi non doverci schierare, ma potrebbero presentarsi circostanze in cui l’Asean [l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico] potrebbe dover scegliere l’una o l’altra. Spero che non accada presto».
Non dobbiamo dimenticare che la stessa Singapore ha prosperato nell’era della globalizzazione, presentandosi come un polo industriale con le porte aperte al mondo. Il Vietnam, in cui sopravvive una dittatura solo apparentemente comunista, si è trasformato in un importante polo manifatturiero globale, collegato sia alle catene di approvvigionamento cinesi che a quelle occidentali. Le vaste nazioni-arcipelago di Indonesia e Filippine, un tempo dilaniate da conflitti interni, hanno visto il loro Pil crescere significativamente dal 2000.
In generale, negli ultimi 30 anni, i 10 Paesi del Sud-est asiatico si sono gradualmente ma sensibilmente allontanati dagli Stati Uniti, orientandosi verso la Cina. Tuttavia, alcuni cambiamenti mostrano come proprio quegli stessi Paesi siano impegnati a fare scelte per restare il più a lungo possibile fuori dalla mischia. Di fatto, molti non hanno ancora scelto tra Pechino e Washington e preferiscono non scegliere affatto o si affidano agli Stati Uniti per la sicurezza e alla Cina per il commercio, gli investimenti e la crescita economica. Tuttavia, Pechino e Washington cercano di esercitare sempre più pressione nei confronti di queste nazioni al fine di ottenere una scelta totale e definitiva a favore della propria politica. Ma non possiamo dimenticare che “definitivo” è un termine pericoloso in Asia: i Paesi possono cambiare il loro orientamento piuttosto rapidamente. Ad esempio, sotto la presidenza di Gloria Macapagal Arroyo dal 2001 al 2010, le Filippine si sono orientate verso la Cina. Con il successore, Benigno Aquino III, fra il 2010 e il 2016, le Filippine si sono riavvicinate agli Stati Uniti, per orientarsi ancora a Pechino con Rodrigo Duterte, e tornare a Washington con l’attuale presidente Ferdinand Marcos jr. Tra gli Stati del Sud-est asiatico a maggioranza musulmana, tra cui Indonesia e Malesia, la rabbia per il sostegno di Washington alla guerra di Israele a Gaza ha portato i governi a prendere le distanze dagli Stati Uniti, mettendo in dubbio il ricorso americano al cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole.
In questo panorama, permane l’assenza dell’Ue che è presente in ordine sparso nella regione, come sempre in ogni sua manifestazione. Esistono, cioè, contratti di singoli Paesi europei, soprattutto a livello economico, con le nazioni del Sud-est asiatico. Eppure, si tratta di una regione che avrà un’importanza fondamentale nel futuro prossimo della geopolitica mondiale.