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In profondità > Spiritualità

Un reporter in visita a Roma

di George Ritinsky

- Fonte: Città Nuova

Riflessioni davanti alla tomba di papa Francesco e di san Paolo.

La tomba di papa Francesco nella Basilica Papale di Santa Maria Maggiore a Roma, Italia, 27 aprile 2025. Foto: ANSA/FABIO CIMAGLIA

Arrivo a Roma nella settimana più calda dell’anno per visitare amici e le tombe di due personaggi che amo definire “estremisti” della Chiesa, due outsider: papa Francesco e S. Paolo.

Arrivo a Roma Termini il 4 luglio, ore 14.27. Fa caldo come in Thailandia, come in Myanmar, luoghi a me cari che visito, di solito. Riesco ad entrare in fila, con tanti pellegrini: fa caldo umido nella Basilica Liberiana, ma non mi spaventa. La tomba attuale del papa è semplice, spoglia, essenziale. Tanta gente passa, prega: ed io rimango lì, attonito. La gente arriva, prega, si fa il segno di croce di fronte alla tomba e molti si commuovono. Francesco sembra ancora vivo, e lo vedi nei volti delle persone che passano e gli parlano. Si sente una fede che è amore vivo per quest’uomo divenuto papa e rimasto uomo; un parroco del mondo, uno che è corso fino in Papua Nuova Guinea, a settembre del 2024, pochi mesi prima di morire.

Diciamo con amore: Francesco è stato un papa fuori dalle righe fin dal primo saluto, la notte della elezione, con quel «buona sera». Mi ha confidato una signora: «A quel saluto, sono balzata in pedi dalla commozione». Ed in fondo, era questo che ci piaceva di lui: l’essere un po’ come noi, fuori dalle righe di fronte alla legge scritta della Chiesa. Sento che quel «chi sono io per giudicare» ha segnato un nuovo corso per la Chiesa e penso nella vita di tanti di noi. Ci siamo sentiti tutti capiti, tutti accolti, tutti “confessati e misericordiati”.

Passo oltre e vado dalla Salus Popoli Romani: mi fermo, la guardo e sento che lei mi guarda. Resto lì a lungo perché si sta bene di fronte ad una donna che “ti ascolta”. Certo che papa Francesco ha voluto essere sepolto fuori dalle mura Leonine, (portano il nome di papa Leone IV, 848 -852), nella Basilica Liberiana, vicino alla stazione Termini, luogo accessibile e di passaggio. E si vede dalla gente “comune” che arriva. Mi ricorda, questo “fuori le mura”, un altro, Cristo, che è stato seppellito fuori dalle mura di Gerusalemme, lontano dal potere religioso e “ordinato”. Questo fuori mi piace, mi dà un senso di universalità. Cristo fu condannato proprio perché era un “bestemmiatore”, un mangione ed un beone; uno che si godeva la vita, tanto per dirla alla Massimo Recalcati, nel suo libro La legge del desiderio. Anche da morto, papa Francesco, ha voluto essere vicino a Maria e pellegrino con i pellegrini, con coloro che sono in ricerca, in viaggio continuo. 

Il giorno dopo, 5 luglio, ore 10 circa, mi accingo ad entrare in un altro luogo che per me ha un significato particolare, perché 20 anni fa vi venivo spesso, abitando alla Garbatella: ne varcavo la soglia per fermarmi a pensare, meditate e riposare, tra un esame ed un altro. La Basilica di san Paolo ha un fascino particolare. Mi piace questa chiesa perché è spoglia, non ci sono attrazioni nelle navate laterali, ma un solo luogo centrale, scarno, che non s’impone ma “emerge” dal sottosuolo e ti attrae già da lontano, quando entri in basilica. È la tomba di uno dei fondatori della Chiesa e che dà il nome al luogo: s. Paolo, l’apostolo delle genti, dei gentili, di coloro che erano fuori dalla salvezza. Affascinante questa chiesa, tra le mille che ho visitato nel mondo, perché è spoglia, tutto mi aiuta a concentrami sulla tomba dell’apostolo, un altro outsider, uno che ha apertamente contestato s. Pietro, come descritto nella lettera ai Galati, sulla questione delle pratiche da imporre ai gentili che venivano alla fede cristiana.

Una cosa che mi piace tanto è che san Paolo, prima della sua conversione, era un tessitore di tende, un mestiere che continuò ad esercitare una volta divenuto apostolo e che gli permetteva di mantenersi durante le sue attività di predicazione, come scritto negli Atti e nelle lettere. Questo lavoro, molto diffuso a Tarso, sua città natale, e in altre città dell’Impero Romano, gli fornì anche un mezzo pratico per il sostentamento durante i suoi viaggi missionari. Insomma, non era ‘un mantenuto’ dalla comunità, conosceva il peso ed il valore del lavoro e del denaro guadagnato col sudore. Ma la cosa più importante di quest’uomo divenuto apostolo, è che lui ha svolto un ruolo cruciale nell’apertura della Chiesa nascente ai gentili, ottenendo il titolo di “apostolo dei gentili”. La sua predicazione si concentrò sull’annuncio del Vangelo a tutte le nazioni, non solo al popolo ebraico, e giocò un ruolo fondamentale nel superare le barriere tra ebrei e non ebrei nella Chiesa primitiva. Uno che ha «fatto delle difficoltà una pedana di slancio verso mete nuove», giusto per dirla al modo di Chiara Lubich! E anche Paolo, sepolto “fuori” delle mura, sulla via Ostinese.

Di fronte alla sua tomba, osservando le centinaia di persone da tutto il mondo, lingue e culture, capisco che senza quest’uomo che ha aperto (e salvato) la Chiesa a tutti noi “gentili”, oggi non saremo qui. E il cristianesimo sarebbe forse morto, “risucchiato” dentro il giudaesimo. E con esso non sarebbe nata la cultura che oggi ha invaso il mondo, con i suoi valori e conquiste: per me che vengo dall’Asia, il valore della persona, dell’essere umano. Mi accorgo che solo il cristianesimo ha una dimensione che salva l’uomo. Rimango a lungo, ringraziando d’essere ancora vivo, dopo 22 anni dall’ultima lunga visita: sento che sono riconoscente a questi due grandi, papa Francesco e san Paolo, che ci hanno insegnato che la Chiesa «è un ospedale dal campo», che per la fede si possono passare anche le catene e il martirio, come tanti cristiani nel mondo oggi, per essere fedeli all’amore e alla felicità di tutto il genere umano.

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