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Jung ed io

di Michele Genisio

- Fonte: Città Nuova

Centocinquanta anni fa nasceva il fondatore della psicologia analitica

Carl Gustav Jung nel 1955. Di Comet Photo AG (Zürich) – Questa immagine proviene dalla collezione della biblioteca del Politecnico federale di Zurigo ed è stata pubblicata su Wikimedia Commons come parte di una cooperazione con Wikimedia CH.Correzioni ed informazioni aggiuntive sono benvenute., CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=134644700

Sulla mia scrivania ho posto una frase: «Ciò che conta e dà senso alla mia vita è che io viva nel modo più pieno possibile per realizzare la volontà divina che è in me. Questo compito mi occupa a tal punto che non mi resta tempo per nient’altro». È tratta dal libro Ricordi, sogni, riflessioni, l’autobiografia che lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung ha scritto in collaborazione con la sua assistente Aniela Jaffé. Mi affascina di quella frase quell’in contenuto nella frase “che è in me”. Spesso, in ambito cristiano, si parla della volontà di Dio “su di me”, come di un volere statico deciso dall’alto, una mappa prestabilita che si deve comprendere e tentare di seguire.

Nella frase di Jung la volontà di Dio è vista invece come un seme deposto nell’anima dell’essere umano, che deve crescere per diventare quella particolare pianta. È qualcosa di dinamico, è evoluzione. A noi è chiesto di avere cura di quel seme, di amarlo così come Dio l’ha deposto in noi, e di aiutarlo a crescere. Jung vedeva la volontà divina come la forza interiore che porta all’individuazione. Secoli prima, con parole diverse, Dante dava un concetto simile nella Commedia: «Se tu segui tua stella non puoi fallire a glorioso porto». La stella è il seme della volontà di Dio, deposto dentro di noi.

In queste righe intendo parlare di Jung facendo riferimento a me stesso. Non per vanità, non penso neppur di avvicinarmi a quel genio dell’umanità. È piuttosto un atto d’amore verso un maestro che mi ha affascinato, sebbene io non sia psichiatra né psicoterapeuta, ma soltanto un misero scribacchino di provincia, affascinato dalla meraviglia e dai contorcimenti dell’animo umano.

Iniziamo dalla casa. Jung viveva in una grande casa a Küsnacht, in Svizzera. Stava lì con sua moglie, Emma Rauschenbach, e i loro cinque figli. Jung tradì diverse volte la moglie, anche in modo evidente. Ma lei, pur soffrendo tantissimo per questo, gli restò sempre accanto, fu la sua roccia per tutta la vita. Sapeva che aveva di fronte un genio assoluto, e con lui instaurò una eccezionale partnership intellettuale. Lui le fu sempre riconoscente e fu profondamente addolorato alla sua morte.

Finché Jung visse, ebbe 19 nipoti. Una grande famiglia. All’ingresso della casa aveva posto una scritta: Vocatus atque non vocatus deus aderit: invocato o non invocato, Dio è presente. Si dice che provenisse da un’iscrizione dell’antico tempio di Delfi, ma non ci sono prove. L’espressione fu diffusa nel Rinascimento da Erasmo da Rotterdam, che la attribuì a un oracolo di Apollo. Ma tant’è. Con quella frase messa sul frontale della casa, Jung affermava l’oggettività di Dio contro ogni tentativo di renderlo un’esperienza soggettiva e quindi archiviabile.

Jung aveva anche un’altra casa, una costruzione bizzarra, a Bollingen sul lago di Zurigo. L’aveva progettata lui stesso, una casa ampia, con delle torri, quasi un labirinto, una casa senza luce elettrica e senza acqua corrente, in cui si usavano candele, lucerne, fuoco del camino, l’acqua era tirata su a mano dal pozzo. Era il suo santuario, il suo rifugio di lavoro, il luogo in cui pensare. Stava lì da solo, pochissimi erano ammessi. Cosa se ne faceva di una grande casa per stare da solo? Non posso saperlo. Ma qualcosa posso intuire. Se l’essere umano ha bisogno di uno spazio anche ristretto per le necessità del suo corpo, la sua anima ha bisogno di grandi territori.

La Torre di Bollingen. Di cgjung.net – site cgjung.net (avec accord), CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5316365

Per questo ama i mari, gli oceani, le montagne, il cielo, i deserti immensi. Oppure una grande casa, dove può spaziare. Anche io ho la mia Bollingen. Una grande casa, ora molto vuota, da quando i figli sono andati per la loro strada. È diventata un ostello di saltuaria ospitalità, la chiamo “Baia del nonno”. Eppure, anche quando sono solo non la sento mai grande, è come se la mia anima la riempisse tutta, occupasse ogni spazio. Penso che qualcosa di simile succedesse a Jung, nella sua fortezza solitaria di Bollingen.

Jung era religioso? In un’intervista del 1975, sua figlia Gret Baumann-Jung, che faceva l’astrologa, diceva: «Papà è l’uomo meno religioso che ho conosciuto». Anche se poi affermava di essersi un po’ ricreduta vedendo i libri che leggeva. Suo nipote, Dieter Baumann, l’unico fra figli e nipoti a esercitare il mestiere del nonno, è di tutt’altro parere. Figli e nipoti hanno spesso una visione diversa sulla stessa persona, padre-nonno. Per lui «Jung era un uomo profondamente religioso, che guardava a ciò che di divino è nell’uomo». Ricorda che diceva: «Noi siamo soltanto la stalla in cui sta nascendo un nuovo Signore». E che nel loro esilio sui monti di Basilea, durante la guerra, passavano le serate a leggere insieme la Bibbia. Jung non vedeva però la divinità nel senso corrente, per lui in essa era «compreso anche il male, e il femminile, e la rivelazione a partire dall’uomo stesso» continua Dieter Baumann. Questa complessità nel concepire Dio, questa incerta linea di demarcazione tra il credere e non credere, la sento anche mia.

C’è dell’altro. Ha a che fare con la complessità con cui Jung guardava non solo a Dio, ma anche all’essere umano. Jung oltre che di psichiatria si interessò di religioni orientali, di alchimia, di occultismo, di chirologia, di letteratura, di filosofia, di fisica quantistica, si appassionò del I Ching. Non voleva tralasciare a priori alcun mezzo per cogliere la totalità dell’individuo. Quella che comprende anche la sua parte inconscia, e in essa quella più sgradevole, l’Ombra. Non intendeva la psicoterapia come un percorso verso la guarigione, ma come una via per trovare se stessi. Una via verso la consapevolezza, perché l’Ombra o diventa cammino verso la luce o ti annienta.

Capì che oltre la nostra essenza individuale c’è una dimensione culturale, collettiva, che in parte è racchiusa nella nostra psiche come inconscio collettivo, in parte va cercata nelle relazioni. Anche io non sono mai riuscito a basare la vita sulla sola razionalità, mi è sempre parsa troppo angusta, limitata e noiosa: l’intuizione, la fiaba, la magia, la poesia, la follia, la mistica, hanno sempre avuto un ruolo decisivo. Mi sento di dire, come (nel libro di Hesse) Boccadoro disse all’amico Narciso al termine della vita: «Temo che non riuscirò mai a farmi un’idea del tuo mondo di pensiero, dove si pensa senza immagini». Anche io penso per immagini. Jung dava grande valore alle immagini, che spesso sanno dire sulla realtà dell’anima molto di più delle parole. Lui amava disegnare mandala [un disegno circolare che rappresenta il cosmo].

Un’ultima cosa. Le patate. Jung non ha insegnato a suo nipote Dieter la psicologia analitica, ma a zappare la terra, a piantare le patate, a scolpire la pietra e il legno, a lavorare l’orto. A lui piaceva andare in barca a remi sul lago, gli piaceva nuotare, cucinare un’abbondante colazione per figli e nipoti, campeggiare con loro su un’isoletta. Sua figlia Gret nell’intervista afferma che a Jung non sarebbe piaciuto essere considerato un intellettuale. Lui amava gli atti concreti. Il nipote Dieter dice che per il nonno «l’astratto mostra sempre le sue radici nel tangibile». Anche per me è così. Piantare alberi, curare i pomodori, le piante, tagliare l’erba a torso nudo sotto il sole, darmi da fare per cucinare per i bambini, sono sempre stati per me atti più importanti dello studio, dello scrivere.

Ecco in queste righe il mio gesto d’amore e di riconoscenza per Jung. Un uomo dal quale, per tante altre cose, mi sento diversissimo.

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