L’azzardo è un grande affare delle mafie, il principale assieme alla droga secondo la Dia, Direzione investigativa antimafia. Talmente grande da giustificare violenze e anche la morte, per impossessarsene. Con vere e proprie guerre tra clan, per il dominio su slot e scommesse, come per lo spaccio. Anche con vittime innocenti. Dieci anni fa, esattamente il 5 marzo 2015, una bomba con un chilo di tritolo, “pari a 20 granate da guerra” la definirono i magistrati della Dda di Bari, viene fatta esplodere davanti alla vetrata della sala giochi Green Table ad Altamura.
Il locale è affollato, soprattutto da giovani che stanno guardando una partita in tv. E gli effetti sono gravissimi, davvero una strage. Vengono feriti otto ragazzi. Il più grave è Domenico Martimucci, 26 anni, Domi per gli amici, soprannominato “piccolo Zidane” per la sua bravura al calcio, numero 10 del Castellaneta, il numero dei campioni. Ma la sua partita finisce quella notte.
Domi rimane in coma cinque mesi, viene trasferito in una clinica austriaca specializzata in riabilitazione neurologica, ma il suo fisico sportivo non ce la fa. L’1 agosto muore dopo un’interminabile agonia.
«Ti attende una “trasferta” non uguale alle tue tante trasferte “fuori casa” – dirà nell’omelia al funerale, celebrato nello stadio della città, il vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti, monsignor Giovanni Ricchiuti – per una partita senza tempi e senza recupero, in un campo che avrà le dimensioni del cielo, con il Signore Gesù tuo straordinario compagno di gioco!».
Parole di speranza ma anche di ferma denuncia. «Dobbiamo tutti vigilare perché nessuno metta “le mani sulla città”, per delinquere, per condizionare, per spaventare in nome di sporchi e illeciti profitti».
Perché questo emerge da subito. Il 20 giugno i carabinieri arrestano quattro esponenti del clan D’Ambrosio, compreso il boss Mario D’Ambrosio. L’impeccabile lavoro dei militari coordinati dai bravissimi e motivati pm della Dda, Giuseppe Gatti e Sergio Nitti, fa emergere in poco tempo che Domi è stato ucciso da chi fa affari sull’azzardo. Non come il calcio che il ragazzo tanto amava.
È la prima vittima innocente delle azzardomafie. Ucciso da una bomba nella guerra per il mercato delle slot, ma anche per creare terrore. Ma la fredda burocrazia del ministero dell’Interno non lo ha riconosciuto vittima innocente per un lontanissimo parente, addirittura di quinto grado, con precedenti penali.
Lo prevede una legge del 2008 che però nello scorso luglio la Consulta ha dichiarato incostituzionale. Ma la famiglia ancora non ha ottenuto il riconoscimento e dopo vari ricorsi al Viminale è in attesa della decisione del giudice a cui si sono rivolti. Forti anche del fatto che i magistrati che hanno indagato sul delitto hanno sempre definito Domi “estraneo ad ambienti criminali”. Magistrati che in questi anni non si sono fermati nella ricerca dei responsabili.
Proprio pochi giorni prima del decimo anniversario della bomba, il 20 settembre, sono stati arrestati altri due responsabili, l’ex collaboratore di giustizia Nicola Centonze, considerato l’intermediario tra il mandante e gli esecutori, e Nicola Laquale, che aveva confezionato l’ordigno. «La giustizia è spesso criticata per la sua lentezza, ma è inesorabile e non ci dimentichiamo di niente, soprattutto dei fatti gravi. Non li trascuriamo mai e continuiamo a lavorare», ha sottolineato il procuratore di Bari, Roberto Rossi.
«Le indagini hanno dimostrato come il movente dell’attentato fosse duplice. Da un lato distruggere una struttura per spostare gli utenti in un altro circolo, gestito da D’Ambrosio. Dall’altro, riaffermare davanti alla cittadinanza di Altamura il predominio del clan D’Ambrosio su quello Loiudice», ha spiegato il procuratore aggiunto Francesco Giannella, coordinatore della Dda. «È una vicenda emblematica dell’interesse della criminalità organizzata sull’azzardo. Fino a gesti violenti. Il movente era infatti il controllo delle slot. È chiarissimo». Ci aveva spiegato dieci anni fa Giuseppe Gatti, oggi in Procura nazionale antimafia. Un attentato per fare male, per creare terrore. «Sapevano bene che a quell’ora nel locale c’erano tante persone. E chi aveva confezionato la bomba sapeva benissimo che era molto potente», sono ancora le parole di Gatti.
Mario D’Ambrosio, è fratello del più noto Bartolomeo, detto Bartolo, boss di Altamura ucciso in un agguato nel settembre 2010. Non voleva arrendersi al fatto di aver perso gran parte della clientela all’indomani del tentativo di omicidio nei suoi confronti il 31 luglio 2014. Dopo quell’episodio molti per paura non andavano più a giocare nelle sue sale gestite da un prestanome. Sale legali, non clandestine.
«Non andavano più da D’Ambrosio perché gli avevano sparato e quindi preferivano andare dove si ritenevano più tranquilli – spiega ancora Gatti -. Lui allora ha pensato: Ora ve lo faccio vedere io… Non poteva tollerare. L’azzardo non è un affare secondario, anzi è uno dei maggiori delle mafie». Così il boss fa una prima mossa e si reca al Green Table per prendere un caffè simbolico coi suoi ex clienti. Un chiaro segnale. In perfetto stile mafioso. E poi passa all’azione. «La bomba – ricordano i carabinieri – doveva intimidire l’altro titolare, affermare che ancora comandava il mafioso e creare terrore, per spingere le persone a tornare a giocare nella sua sala. Volevano proprio uccidere, non una tentata strage ma una strage vera e propria». E così è stato.
Non si sono fermati davanti a niente, scrivono gli inquirenti, agendo con “modalità plateali”, provocando “allarme sociale”, rafforzando “il messaggio omertoso a chi doveva intenderlo”. Perfette modalità mafiose. Ma grazie alle telecamere della zona i carabinieri sono riusciti a individuare l’auto degli attentatori, di proprietà di un incensurato, il 21enne Luciano Forte, figlio di un poliziotto in servizio a Matera.
Il ragazzo, finito in un giro di droga gestito dal clan, aveva accompagnato l’autore materiale dell’attentato, Savino Berardi, esponente della cosca. E da lì si è risaliti al boss. Così in meno di quattro mesi sono scattate le manette. E sei anni dopo le condanne definitive: 30 anni per D’Ambrosio, 20 per Berardi e 18 per Forte. Dopo dieci anni il cerchio si chiude coi due nuovi arresti. Colpisce, in particolare, la figura di Nicola Centonze. Fu, infatti, proprio lui, in veste di collaboratore di giustizia, a far arrestare Mario D’Ambrosio. Ma, ha sottolineato il procuratore Rossi, «si era “dimenticato” della propria responsabilità. Falcone ci ha insegnato che i collaboratori sono importanti, ma le loro dichiarazioni vanno sempre riscontrate e noi l’abbiamo fatto. Su questo noi siamo implacabili, chi collabora deve essere sincero e deve dire tutto, non può non riferire alcune cose». Invece Centonze ha taciuto.
Eppure era stato lui a ricevere il mandato da D’Ambrosio per organizzare l’attentato, e sempre lui avrebbe messo in contatto chi aveva la bomba, Nicola Laquale, con Forte e Berardi. Dando a quest’ultimo una precisa indicazione: «Prendi la bomba, apri la porta e buttagliela dentro».
Laquale «che conoscevo per motivi di lavoro, mi diceva “sarà stato un albanese, non uno di qua”», racconta Lea Martimucci, sorella di Domi. Che ci tiene soprattutto a ringraziare magistrati e forze dell’ordine.
«Non hanno mai dimenticato Domi. Questi uomini e queste donne nel silenzio continuano a salvaguardare sia le nostre vite che il nostro futuro. Siamo veramente grati. Loro ci sono sempre e questa è la prova. Sono i numeri 10 come lo era mio fratello in campo: oggi Domi sta ridendo perché la giustizia arriva e perché è orgoglioso di noi. Perché anche noi ci saremo sempre». In questi dieci anni, prosegue, «è cambiato tutto per noi: ogni giorno è il 5 marzo, però ogni giorno ci svegliamo con un obiettivo. Sicuramente non riusciremo a cambiare il mondo da soli, ma insieme alla comunità, insieme alla nostra associazione, alla famiglia e agli uomini dello Stato. Lavoriamo insieme per un futuro migliore. Soprattutto insieme ai ragazzi».
La famiglia non si è chiusa nel dolore ma ha trasformato la memoria in impegno. Fortemente sostenuta da Libera e da don Luigi Ciotti che ad Altamura è stato più volte. «Non è vero che Domi fosse nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sono i balordi che sono sempre al posto sbagliato al momento sbagliato», ripete in ogni incontro mamma Grazia. «Mio figlio è una vittima innocentissima di mafia”, confermando l’impegno di tutta la famiglia “per essere tutti uniti, sperando che la mafia sia sconfitta. Parlandone». Ma anche realizzando iniziative concrete.
È nata così l’associazione “Noi siamo Domi” con l’impegno per la legalità, “nel nome e nel sorriso di Domi”. Tante le iniziative su sport vero e pulito e contro l’azzardo. È nato così il “Centro sportivo Domenico Martimucci- DM10” presso la parrocchia del Redentore, con due campi di calcio a 5, uno di beach volley, una pista di atletica, un area fitness attrezzata all’aperto. Frutto di un bando regionale per impianti sportivi privati da 100mila euro ma completato grazie al sostegno anche economico di tantissime persone.
Iniziative che i due magistrati che condussero l’inchiesta commentano positivamente. «Il territorio di Altamura è stato a lungo coperto da una cappa di omertà – riflette Renato Nitti, oggi procuratore di Trani -. Le persone andavano dal mafioso per risolvere i propri problemi, da un furto a problemi di cuore. La prima reazione forte che lascia sperare è quella della famiglia e dell’associazione. Purtroppo la società si è smossa solo dopo il dramma della morte di un innocente, ma è un primo passo importante». «La cosa più bella è stata la risposta di riscatto del territorio – commenta Giuseppe Gatti -. Sangue innocente che tocca le coscienze e provoca processi di rigenerazione. Grazie anche alla forte e convinta testimonianza della famiglia».
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