Si definiva «un po’ ribelle, difficile a concedersi», ma sapeva coltivare con tenacia le amicizie vere; «insegnante ostinata», che a sua volta però aveva imparato molto dalle esperienze dolorose della vita; «donna di poca preghiera», aliena cioè dalle lunghe devozioni, e viceversa costante nella contemplazione; poco incline alle effusioni con gli stessi figli, eppure stra-amata dai “suoi” ragazzi di San Patrignano, dove incalzando l’età era andata a vivere, insegnante al servizio di quella comunità. Una donna che ha vissuto come vocazione la famiglia e la scuola per poi scoprirsi, a tarda età, anche scrittrice e poetessa; che ha sperimentato angoscia e solitudine, e tuttavia attraverso le sue prose e le sue liriche ha saputo infondere serenità e amore alla vita. Questa era Francesca de’ Manzoni Boschini, bolognese di nascita, classe 1920, affezionata lettrice di Città Nuova.
Nel 2006, fresco di lettura dell’ultimo suo libro di racconti Il sole sulle pietre (edito come gli altri da Bonaccorso), ero andato a incontrarla a Verona nella sua casa in vista dell’Adige, dove da oltre trent’anni viveva «sola e serena, invidiata e invidiabile… Sola perché mio marito è mancato da anni e i figli sono usciti di casa, ciascuno dietro il proprio destino; invidiata perché ho scavalcato gli ottant’anni in buona salute e pienamente padrona di me; invidiabile perché coltivo, con energia ed entusiasmo, interessi seri, impegnativi».
Per cinquant’anni aveva insegnato in scuole d’ogni ordine e grado, dal Friuli alla Romagna, al Veneto; unendo a quello scolastico l’impegno nell’Azione cattolica, in famiglia, accudendo figli, nipoti e congiunti ammalati. «Non so neanch’io come abbia potuto fare tante cose» si stupiva, pur riconoscendosi doti un po’ speciali di vitalità e tenacia. Il distillato di questa ricca esperienza è tutto nei suoi racconti e poesie: «Sono il mio specchio, espressione del mio bisogno di autenticità».
Durante l’intervista Francesca mi ha letto gli ultimi limpidi versi, nati appena il giorno prima: «Ricordare non è fasciarsi/ del bozzolo aureo del passato, / ma un ricreare l’esistenza, / far nascere un fiore sul ramo morto. / E i ricordi tristi?/ Su quelle notti far fiorire l’alba».
«In tutto – commentava poi – c’è un perché, il cui svelamento forse sarà lontano dai nostri occhi. Bisogna attendere i tempi di Dio. Sono convinta che ciò che avviene dentro di noi è sempre la maturazione di un seme avvertito o inavvertito, depositato nella nostra esistenza. È questo che mi fa essere serena anche in mezzo alle contraddizioni».
Quanto alle poesie, non rientravano nei suoi progetti: proprio per questo Francesca era diventata un “caso letterario”. «È vero. Ho cominciato a comporre liriche a ottant’anni. L’occasione: l’invito di un caro amico in partenza per la Patagonia a scrivere per lui un diario. Seduta proprio su questa poltrona, ho messo per iscritto (in una prosa poetica, a me pareva) i miei ricordi di insegnante nel Friuli, ricordi anche di guerra. Se non l’avesse chiamata poesia un critico letterario e poeta come Giorgio Bárberi Squarotti, non l’avrei mai creduto. È stato qualcosa di assolutamente spontaneo».
E i racconti? «Sono tutti autobiografici, anche quelli non scritti in prima persona. Non c’è una sola parola che non corrisponda a verità di avvenimento o di sentimento. Se mi si chiedesse di scrivere un romanzo risponderei di no perché non so inventare».
Nel Sole sulle pietre avevo trovato la citazione di un salmo: «Signore, insegnaci a contare i nostri giorni e avremo la sapienza del cuore». Francesca: «Volevo semplicemente invitare a far conto delle vicende di ogni giorno perché sono ricche di messaggi che vengono da Dio. E ringraziarlo di tutto perché tutto – anche il dolore – è dono suo. Nei momenti della prova però il Signore non abbandona. Questa fiducia mi ha accompagnata sempre ed è l’anima di tutto quello che scrivo. La mia fede comunque non è stata un cammino facile neanche da giovane. In certi racconti e poesie, ad esempio, si coglie una grande sintonia con mio padre, ma una altrettanto grande incomprensione con mia madre, una donna ricca di meriti, ma anche imprevedibile nelle sue scelte… Purtroppo un certo modo duro di trattare è rimasto anche in me: non ho mai coccolato i figli, neanche ora che sono adulti, anche se loro sanno che ci sono, e con tutte le attenzioni possibili».
Lo conferma il maglione che Francesca stava confezionando per uno di loro. Che ci fosse un rapporto tra quest’altra sua passione e lo scrivere, lo aveva confidato lei stessa nei suoi racconti: «Il lavoro a maglia mi induce a pensare alla vita come ad una tessitura di cui mi è stato dato (da chi?) l’ordito e io – al telaio – vi ho passato e ripassato la spola. Libri e lana fanno parte di quella tessitura, non posso pensarli come unici elementi e nemmeno porli su uno stesso piano di valutazione, lo so bene. I libri dicono passione e professione; la lana, ore colorate, motivazioni occasionali, pensieri del cuore, crepitio di fiamma nel focolare, chiacchiere e gare di bravura e di creatività. Il libro: un rapporto personalissimo, intimo; la lana: comunicazione, condivisione. Il lavoro a maglia, inoltre, presuppone quasi sempre l’altro, cui il capo eseguito andrà a finire…».
Con l’immagine di Francesca intenta a sferruzzare mi sono congedato da lei, sapendo che aveva molto altro da donare. Come dicono questi altri suoi versi: «Nella madia ho in serbo/tanto pane ancora». Da allora abbiamo intrattenuto una corrispondenza fino al 31 gennaio 2014. Mi seguiva su Città Nuova, grata per l’amicizia e il ricordo costante. Nell’ultima sua lettera l’ho scoperta affaticata: Francesca avrebbe aspirato ad una quieta e disimpegnata vecchiaia (ma non era da lei!), e invece, nonostante l’età avanzata, ancora dava lezioni a qualche studente. E concludeva: «Non dimenticarmi, aiutami a vedere la volontà di Dio in tutto quello che mi si pone davanti».
È morta il 29 agosto 2014 all’età di 94 anni, lasciandomi di lei un ricordo estremamente dolce e colmo d’affetto. Con quest’animo in una sua lirica, Ombre accoglienti, aveva parlato di coloro che noi pensiamo nell’aldilà: «Non so se li vorrei vivi i morti/ e a me accanto. Spento/ il rumore della vita, le contese,/ i dissapori, la fatica/ della condivisione, si son fatti/ accoglienti, d’un pallore trasparente./ Gli si può parlare e stanno/ sereni nel silenzio dell’ascolto./ Sì, avevi ragione tu, perdona./ Come smeriglio il tempo/ ha levigato le troppe asperità./ Ombre nell’ombra rispondono/ al nostro dire come noi vogliamo,/ assentono, accettano altre/ presenze, altri volti chini sui/ nostri. E noi la sera, quando/ siamo soli e rispolveriamo/ un passato che si annebbia/ possiamo discutere con loro/ a voce bassa, senza sbattiti/di porte. Loro sanno che non conta/più tanto infinito affanno./ Ce lo dicono in un soffio,/ a luci spente, quando il sonno arriva».
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