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La guerra e noi, le domande che ci portiamo dentro

di Carlo Cefaloni

Carlo Cefaloni

Cronaca di un itinerario in Italia, dal porto di Genova a quello di Trieste, nelle scuole di Parma per arrivare a Roma, alla vigilia del Giubileo tra scenari di guerra sempre più vicini, per dare voce ad un’umanità che non si rassegna alla seduzione della logica bellica. Con una domanda che rimanda a quella di Isaia: «Quanto manca sentinella della notte?». «Che tempi abbiamo per cambiare davvero il corso del mondo?». (Prima parte)

Portuali di Genova contro il traffico dii armi nei porti ANSA/LUCA ZENNARO

La domanda che mi spinge a scrivere, agire, viaggiare e promuovere incontri è di carattere esistenziale e ha una valenza pubblica. Riuscirà questa nostra generazione, con tutte le sue contraddizioni, a sottrarsi al baratro della guerra ormai entrata pienamente nel nostro sguardo dopo decenni di rimozione? 

Il mio viaggio per Trieste è iniziato il 2 aprile 2022 a Genova, nella piazza antistante la cattedrale di San Lorenzo che ho scoperto collocata molto vicino al porto. La città “Superba”, con la gente dai modi spicci, l’ho conosciuta negli anni tramite la corrispondenza di Silvano Gianti, capace come pochi di cogliere i semi di novità ribelle al conformismo, che è la tentazione di ogni tempo. È stato lui a parlare su Città Nuova del caso di un collettivo di portuali che nel 2019 hanno deciso di non collaborare alle operazioni di carico e scarico di una nave che fa la spola tra gli Usa e l’Arabia Saudita trasportando materiale bellico. Un gesto che ha creato scandalo e suscitato la riprovazione dei maggiorenti che controllano il sistema portuale, con metodi emersi poi in alcune recenti inchieste giudiziarie. Gli agenti della polizia, tuttavia, si sono recati prima, la mattina presto, nelle case dei lavoratori della banchina per contestargli violazioni di carattere penale. Roba pesante che provoca isolamento e incomprensione, ma è accaduto l’imprevisto, e cioè che anche le associazioni cattoliche ufficiali, di solito molto prudenti, non sono rimaste a guardare passivamente ma, formando un cartello nominato “Genova città aperta alla pace”, hanno manifestato solidarietà pubblica ai portuali dall’evidente collocazione politica espressa con il logo del collettivo che associa l’àncora ad un martello.

Papa Francesco è stato il primo ad indicare il loro gesto, comune ad altri lavoratori dei porti europei, come esempio da imitare nella resistenza alla collaborazione alla filiera della guerra. Quel porto gli è molto caro perché legato al transito della sua famiglia espatriata verso l’Argentina durante gli anni del fascismo. L’identificazione dell’astigiano Bergoglio con i migranti è così totale da esporlo a forti incomprensioni. Le stesse raccontate dal mio amico Silvano Gianti, piemontese anch’egli ma di Cuneo, nelle corrispondenze da Ventimiglia, assieme a storie di notevole umanità che continuano a segnare quel territorio di confine con la Francia a due ore di viaggio da Genova.

Porti aperti ai migranti ma chiusi alle armi” è lo slogan del Calp che sintetizza l’itinerario della vita di Silvano, sempre ironico e beffardo, scomparso improvvisamente nel 2020 durante l’epidemia di Covid, senza la possibilità di un commiato comunitario. Da poco a Ventimiglia sono arrivate tre nostre amiche comuni che continuano il lavoro di Silvano a servizio di quel pezzo di umanità che vuole gridare la fraternità con la vita. Tra di loro Maria Silvia arriva da una delle periferie di Napoli dove ha insegnato per anni, ma anche lei è del cuneese. Minuta di aspetto, ha il cuore grande come è “granda” quella terra del Piemonte.

Silvano aveva fretta

L’ultima volta che l’ho visto a Genova, Silvano aveva fretta. Doveva consegnare degli aiuti a famiglie impoverite dalla crisi, ma mi ha fatto fare un giro tra gli stretti carruggi anche per farmi vedere la sede dell’associazione “Città fraterna”, nata proprio per rispondere a necessità concrete di aiuto. Per questo mi è sembrato di avvertire la sua presenza quando il 2 aprile del 2022, con i volti ancora bardati dalle mascherine protettive dal virus, ho parlato in piazza a nome del Movimento dei Focolari, assieme ai vescovi di Genova e Savona, la Pastorale sociale della Cei, Pax Christi, l’Agesci, per dare sostegno ai portuali del Calp rappresentati da Josè Nivoi, incontrato sul web in alcuni collegamenti pubblici, per poi consegnare alla sede dell’autorità portuale la richiesta formale di non far transitare carichi di armi in contrasto con la Legge 185/90.

Il corteo variopinto è stato breve, sobrio e frugale come sono i genovesi, in un clima segnato da quanto avvenuto il 24 febbraio di quell’anno, con la guerra precipitata nel cuore dell’Europa posta davanti al bivio tra esercitare un ruolo autorevole di mediazione o essere una pedina di strategie geopolitiche decise altrove. Restano poi irrisolte le lacerazioni delle coscienze davanti all’uso delle armi, davanti all’assenza di una attiva politica della nonviolenza evocata come necessaria dal papa nel 2017.

Collegandosi con il parlamento italiano, il 22 marzo 2022, il presidente ucraino Zelenzki ha citato proprio Genova per invitare ad immaginarla segnata dai bombardamenti come la città costiera di Mariupol. In effetti già nel 1942 sul capoluogo ligure, sede di importanti industrie, si scaricarono 179 tonnellate di ordigni da parte dell’aviazione britannica.

Volenti o nolenti ci troviamo, oggi, davanti alla domanda che alcuni giovani posero nel 1955 alla redazione di Adesso per sapere, in caso di guerra che appariva imminente, se dovevano usare le armi e verso quali obiettivi puntarle. Un dilemma che si pone oggi nel conflitto in Medio Oriente tra limiti all’esercizio della difesa da parte di Israele dopo l’eccidio del 7 ottobre 2023 e la giustificazione della resistenza armata del popolo palestinese che rivendica il diritto di esistere. Si deve proprio al genovese Paolo Emilio Taviani, rappresentate della Dc nel CLN, la giustificazione dell’uso estremo di strumenti violenti nell’opposizione ad un regime ingiusto.

 

“Verranno di notte”

Dopo oltre 2 anni da quel giorno di aprile del 2022 ho preso il treno per raggiungere Trieste, porto dell’Europa centrale verso quel Mediterraneo che Caracciolo definisce Medio Oceano, luogo di transito e comunicazione tra l’Atlantico e il Pacifico. Lo scenario generale è sempre più inquietante. I vertici militari parlano ormai di uscire dall’ipocrisia e definire “Scuola di guerra” l’alta formazione degli ufficiali. La Svezia, dove l’ultradestra sostiene il governo, ha abbandonato l’eredità politica di Olof Palme che aveva fatto della neutralità della nazione un fattore riconosciuto di mediazione per la ricerca della pace, ha aderito alla Nato, ripristinato il servizio militare e comincia a diffondere manuali di preparazione della popolazione alla guerra. Sul porto di Trieste si consuma un grande contesa sul suo destino, se cioè deve utilizzato principalmente, come ormai definito in numerosi studi strategici, quale snodo del traffico di armi e soldati dell’Alleanza atlantica oppure restare un luogo aperto al libero commercio internazionale, ponte tra Oriente e Occidente, Nord e Sud. Passa da questa affascinante città cosmopolita il crocevia della storia. La sede di Fincantieri è vicino alla piazza grande aperta sul molo dove nel 1918 sbarcarono i marinai italiani per conquistare l’ambito porto dell’impero austroungarico. È completamente pubblica la più grande società cantieristica navale in Europa che compete con i francesi nel fornire navi da guerra all’Egitto e tramite la sua controllata statunitense vende navi da guerra ai sauditi. È ormai sempre più consolidato il rapporto con Leonardo, altra azienda controllato dallo Stato che permette all’Italia di trovarsi ai vertici internazionali dell’export di armi al tempo della guerra mondiale a pezzi. Lavora a questo obiettivo con grande competenza la Fondazione Med-Or promossa da Leonardo stessa per sostenere l’espansione del sistema Paese nel Medio Oriente allargato.

Si tratta di scelte determinanti effettuate dall’alto nel nostro Paese senza una chiara consapevolezza dell’opinione pubblica. Per questo motivo sono rimasto perplesso quando nel luglio 2024, proprio a Trieste, ho partecipato alla Settimana sociale dei cattolici in Italia, promossa per andare al cuore della democrazia in crisi senza che si affrontasse il nodo della carenza di democrazia economica che emerge dall’uso del porto di questa città. Con un’Europa alle porte di una guerra globale aperta all’uso dichiarato delle armi nucleari, solo un tavolo dei delegati è stato dedicato alla questione della “pace” che si presta a declinazioni più varie con l’immancabile auspicio di puntare sulla formazione dei giovani. Un auspicio sempre valido, ma che appare come una dichiarazione di sconfitta davanti alla tragedia dell’ora attuale, che appare consegnata alla logica ferrea della guerra. Dieci anni addietro, nel 2014 Francesco non aveva nascosto, visitando il “sacrario” di Redipuglia, lo smarrimento davanti ai resti di oltre 100 mila giovani immolati nel mattatoio del primo conflitto mondiale. Disse di aver udito il grido di Caino che continua dire «A me che importa?» in un mondo dove agiscono i «pianificatori del terrore e gli interessi delle industrie delle armi». Un grido che si alza sempre più imponente ma che ancora in pochi sembrano sentire. Tra questi lo scrittore triestino Paolo Rumiz con il suo Verranno di notte. Lo spettro della barbarie in Europa, un libro appena pubblicato dove è molto duro con la von der Leyen.

 

Trieste crocevia d’Europa

La questione Trieste è stata sollevata e presa in carico il pomeriggio del 19 novembre in uno spazio ristrutturato del porto vecchio, con la tappa della marcia mondiale della pace che si incontra con quella dei “Fari di pace”, iniziata, come detto, a Genova nel 2022 a sostegno dei portuali obiettori di coscienza per toccare poi Spezia, Napoli, Bari e Ravenna, coronata con una lettera pubblica rivolta alle autorità per far rispettare la legge 185/90. La missiva porta la firma iniziale del vescovo di Trieste Enrico Trevisi che già si è esposto senza tentazioni equilibriste nel perorare l’accoglienza dei migrati che arrivano in città dalla Rotta balcanica. Arriva dal mantovano, terra di Mazzolari. Ascolta con attenzione tutti gli interventi previsti e quello del rappresentante dell’autorità portuale e di un ufficiale della guardia costiera che termina recitando i versi scritti nelle trincee del 15-18 da Ungaretti: «Di che reggimento siete fratelli? Parola tremante nella notte…». Il quotidiano locale, glorioso e ancora molto letto, finirà per dedicare una foto all’evento con una didascalia che parla di una preghiera, mai avvenuta, e di un appello al cessate il fuoco. Il minimo che si concede a cose del genere: evocazioni senza concretezza. Mentre l’incontro puntava direttamente a riconsiderare il destino segnato del porto e il flusso di armi. Il vescovo è intervenuto, tra l’altro, per auspicare di tassare gli ultra-profitti delle imprese di armi. Ci sarebbe materiale per attizzare un dibattito pubblico serio, assieme a polemiche inevitabili, invece il tutto sembra consegnato alla manifestazione del «sospiro della creatura oppressa, l’anima di un mondo senza cuore», per citare la definizione di religione in Marx, istanze velleitarie di chi invoca genericamente la pace con il rischio di prestare soccorso agli oppressori.

Vedremo nel tempo se il seme piantato a Trieste porterà frutto, intanto l’Italia si appresta a varare la sua seconda portaerei da guerra intitolata proprio alla città giuliana: la cerimonia è prevista nel porto di Livorno il 7 dicembre con la nave da 245 metri di lunghezza, 36 di larghezza e un dislocamento di 38.000 tonnellate, predisposta cioè, come dice il comunicato del ministero della Difesa, per «condurre operazioni di assalto anfibio assicurando una prolungata persistenza in area di operazioni con elevata autonomia logistica». Con tale dotazione si consolida «il nuovo concetto strategico di difesa» che chiede di intervenire oltre i confini nazionali, ovunque i nostri interessi vengano messi in pericolo come dimostra l’invio dal porto di Taranto, nel maggio 2024, della portaerei Cavour verso il mar cinese a sostegno della marina militare Usa.

Parma, città dei maestri di vita

Con queste considerazioni in mente ho preso il treno per raggiungere Parma dove ho fatto una serie di incontri con gli studenti delle superiori nell’ambito del Festival della pace promosso ogni anno in questa città elegante, ricca di storia, cultura e impegno civile. Vengo invitato tramite l’associazione Sguardi di fraternità che fa parte della Casa della pace, una realtà consolidata grazie a testimonianze credibili e durature di impegno concreto. Come ho già raccontato su cittanuova.it, è qui che è nato e cresciuto l’esempio tra i più riusciti di accoglienza e integrazione dei migranti con il Ciac (Centro immigrazione asilo cooperazione) sorto nel 1993 con la campagna “Fermiamo un fucile per volta” promossa per dare accoglienza e sostegno ai disertori della guerra nella ex Jugoslavia, il terrificante conflitto rimosso nella storia recente dell’Europa che ha conosciuto il ritorno della pulizia etnica e del genocidio. Parla piano e in modo dimesso, ma ha una determinazione d’acciaio il suo fondatore Emilio Rossi al quale ho chiesto di raccontare le motivazioni profonde di un percorso che ha coinvolto più enti locali ed assunto un modello su scala nazionale, alternativo alla logica della paura e della repressione che induce il fenomeno migratorio di un globo in rapida mutazione.

Un lavoro che ha avuto come alleato naturale una figura di vero e proprio maestro di vita, Danilo Amadei, esperto di pedagogia, amico di Danilo Dolci, cattolico a tutto tondo in un’ambiente culturale esigente che chiede di rendere ragione di ogni gesto. Ha ricoperto in modo innovativo ruoli di amministratore pubblico misurandosi con la difficoltà e la contraddizione della politica, mantenendosi fedele alla scelta della nonviolenza che lo ha portato ad essere tra i primi obiettori di coscienza in Italia. Ha scritto di recente un’autobiografia dal titolo resistenziale Ora e sempre nonviolenza con un sottotitolo che rivela un mondo intero: una testimonianza in un percorso collettivo. Ho intervistato anche Danilo su cittanuova.it a partire da alcune domande incentrate sul passaggio culturale avvenuto dal tempo in cui i giovani avevano grandi pretese dalla Chiesa tanto da occupare, a Parma, la cattedrale per rivendicare una maggiore coerenza evangelica dei credenti fino all’attuale apparente indifferenza.

Eppure, in quella città non mancano testimonianze eclatanti come ad esempio i missionari saveriani nati proprio a Parma, un patrimonio immenso di radicalità di vita e apertura al mondo. Tra questi religiosi ho avuto modo di conoscerne uno particolarmente anomalo perché passato dalla tonaca all’impegno politico diretto fino al Parlamento europeo, per poi, poco prima di morire, tornare a celebrare messa. Una persona dal carattere aperto e gioviale, Eugenio Melandri, capace di donazione totale e dal cuore inquieto. È stato tra gli artefici del movimento dal basso che ha permesso di approvare nel 1990 la legge 185 che finora ha cercato di porre limiti all’esportazione incontrollata di armi. Sono stati i saveriani, inoltre, assieme al fondatore di Emergency, Gino Strada, a sostenere la ribellione delle operaie contro la produzione di mine antiuomo della Valsella Meccanotecnica nel bresciano, che ha permesso al nostro Paese di essere capofila della Convenzione internazionale di messa al bando di questi strumenti orribili di morte che contaminano ancora mezzo mondo con il loro marchio italico.

Si comprende da queste brevi note perché a Parma esiste un assessorato alla pace che non è affatto decorativo, ma ha un ruolo propulsore interpretato con grande generosità da Daria Jacopozzi. Ha anche la delega alla partecipazione che è il sale e la sfida della democrazia.

In questa città è inoltre molto viva la memoria della resistenza armata opposta nell’agosto 1922 alle milizie fasciste poco prima della marcia su Roma, quando i miliziani del ferrarese Italo Balbo, ras temuto anche da Mussolini, furono respinti dalla reazione popolare del quartiere Oltre torrente. Una vicenda legata al mito degli “arditi del popolo” guidati da Guido Picelli, una tempra di combattente forgiato nella fornace del primo conflitto mondiale che, poi, trovò la morte nel 1937 nella terrificante guerra civile spagnola. È, invece, scarsa la memoria del cattolico Ulisse Corazza, il giovane segretario del Partito popolare che rimase ucciso, armi in pugno, sulle barricate di Parma.

Ho avvertito, quindi tutto il peso e la responsabilità di tornare per la terza volta in alcune delle scuole superiori parmigiane, come proposto e programmato dal mio amico Roberto Marchioro, medico psichiatra, presidente di Sguardi di fraternità, che mantiene i rapporti con le docenti molto brave e motivate di alcune classi. Una premessa necessaria di continuità e di approfondimento che deve precedere l’incontro di alcune ore in cui si incrociano tanti volti che variano dall’interesse attento e partecipe alla distrazione e noia sempre dietro l’angolo.

È chiaro che la vera impresa educativa è quella degli insegnanti che vedono passare di anno in anno generazioni sempre diverse, che accolgono nel fiore dell’adolescenza per vederle maturare coltivando le domande e le attese della gioventù che segnano poi l’intera esistenza. È un compito che richiedere grande cura e la passione educativa dell’intera comunità scolastica che non conosce i tempi di maturazione dei semi piantati in quegli anni decisivi.

C’è voluta, negli anni 60, la denuncia urticante di don Milani, il trauma della scuola di Barbiana per incrinare «i miti eterni della patria e dell’eroe», come cantava Guccini, rimasti anche dopo il lavacro del secondo conflitto mondiale culminato nel fungo atomico, cioè nella nuova era della possibile autodistruzione dell’umanità.

(continua) Vedi seconda parte a questo link 

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