Il Libano che accoglie

Per l’ennesima volta il Paese dei cedri è in guerra, in realtà senza aver dichiarato nessuna ostilità. E ricomincia l’esodo forzato di centinaia di migliaia di persone, che trovano gente che le ospitano
Strada trafficatissima per l'esodo di famiglie dal Libano meridionale verso il nord, a fine settembre 2024. EPA/STRINGER

Il Libano ha una sua storia travagliatissima e mutante con facilità, si direbbe una banderuola, per la sua invidiabile posizione geografica e per la natura della sua gente che oggi vanta origini plurime, dai fenici agli arabi, dagli europei agli armeni, dai persiani ai drusi. Diciotto comunità religiose (ma sarebbe più giusto dire etnico-religiose) sono riconosciute nella costituzione libanese, e un’altra dozzina di gruppi sono presenti da tempo nel suo territorio.

All’inizio del XX secolo, ad esempio, il Libano ha accolto centinaia di migliaia di armeni, in fuga dal genocidio perpetrato nei loro confronti dalla Turchia. Nel 1948, poi, con la nascita dello Stato di Israele, circa mezzo milioni di persone ha lasciato Gerusalemme e i suoi dintorni per riparare a Beirut o nelle vicinanze: ancor oggi i palestinesi sono confinati in vetusti campi profughi che resistono da quasi ottant’anni. Durante la guerra civile, o piuttosto incivile o contro i civili, circa metà della popolazione – che oggi supera di poco i quattro milioni di abitanti – ha cambiato di residenza per motivi bellici, tornando poi solo in parte nei villaggi di origine, soprattutto nel sud del Libano.

Nel 2006, esattamente come sta accadendo ora, circa quattrocentomila profughi interni è salito da sud, bombardato e poi occupato dagli israeliani, verso Beirut e il nord, per sfuggire al disastro di una guerra reiterata. Nel 2011 e 2012, infine, con lo scoppio della guerra in Siria, quasi due milioni di persone – oltre ai tre-quattro milioni fuggiti in Europa o più lontano ancora – hanno trovato rifugio negli interstizi urbani o rurali del Libano: ancor oggi si valuta che un milione di siriani cerchino di sopravvivere nel Paese dei cedri. Ma la più vasta e continua massa di persone che ha cambiato residenza è andata in direzione opposta: è quella dei libanesi espatriati volontariamente, a ondate che hanno raggiunto i dodici milioni per le ultime tre generazioni (cinquant’anni circa) e ulteriori sei milioni per quelle precedenti. Insomma, il Libano è un Paese in perenne movimento, ed anche in questi giorni lo dimostra, per le centinaia di migliaia di profughi che sta abbandonando il sud – da Tiro a Sidone, alla stessa periferia sud di Beirut, roccaforte dei comandi di Hezbollah – per sfuggire alle operazioni di guerra tradizionale (come i bombardamenti) e quelle invece non convenzionali, troppo simili ad azioni terroristiche (come lo scoppio di cercapersone, walkie-talkie e cellulari).

Arrivano i poveri, a nord, arrivano le famiglie sciite del sud e non sanno dove andare, mentre quelle cristiane provenienti dai villaggi meridionali hanno parenti e amici che li ospitano nelle loro case sulla montagna di Beirut. Gli sciiti non hanno punti di riferimento familiari o tribali al nord, perché al sud gli sciiti presenti sono lontani mille miglia dagli sciiti di Hezbollah e della sua galassia politico-militare, quindi non hanno addentellati. Non pochi di loro, però, hanno i riferimenti di coloro che li avevano accolti nel 2006, e allora prendono la via di quelle case e di quelle strutture collettive in cui erano stati diciotto anni fa.

È quanto accade, ad esempio, al Centro Mariapoli di Ain Aar, una struttura per ritiri e congressi che può ospitare, a fisarmonica, da cento a duecento persone, sulla montagna di Beirut, un luogo che può essere descritto come ameno, popolato quasi esclusivamente da cristiani fuggiti dalla capitale nella guerra civile. Il centro di Ain Aar è gestito dai Focolari ed ha una particolarità: il Movimento, in effetti, ha continuato le relazioni con gli sciiti ospitati nel 2006, provenienti in particolare dalla città di Karthoum e dai villaggi limitrofi, in un’operazione di dialogo interreligioso mai interrottasi, se non per le ripetute emergenze di sicurezza. L’operazione era basata su incontri semestrali, una volta a sud, l’altra a nord. Io stesso ho avuto modo di parteciparvi alcune volte, con non poca sorpresa, non solo per il folklore – ricordo un pasto consumato in un giardino pubblico di Karthoum con 39 gradi centigradi, con cibo a base di riso e montone fritto, roba da rimanere stecchiti! –, ma soprattutto per la stima e l’amicizia che legava le due comunità.

La storia ora si ripete, come ci spiegano Philippe e Léna Hage, tra i coordinatori dell’accoglienza. Le loro parole sono credibili, perché per ben due volte hanno perso tutti i loro beni a causa delle guerre libanesi. Lui è dentista, lei si occupa di una Ong per le adozioni a distanza, sono cristiani maroniti e fanno parte dei Focolari: «Anche oggi la storia si ripete. Ieri a tarda notte abbiamo accolto una sessantina di persone, che oggi sono diventate più di cento, e ne arriveranno altre, appartenenti alle stesse famiglie accolte nel 2006. Abbiamo lavorato e lavoriamo perché non manchi loro l’essenziale. Il dramma si ripete, ma in primo piano c’è pure l’accoglienza, l’amore per il prossimo. Speriamo che l’emergenza  non duri troppo a lungo, ma non è detto, siamo pronti a tutto. Cerchiamo di lavorare nel presente, senza pensare al futuro, peraltro incerto. Uno sceicco, ospite da noi, notava come sia importante la presenza dei cristiani in Libano: secondo lui lo si capisce soprattutto nelle emergenze, come quella attuale. Non è questione di quantità delle comunità degli uni o degli altri, ma della qualità delle nostre presenze».

I fenici e i loro discendenti, mescolando il loro sangue con quello di altre popolazioni, hanno dato vita a un cocktail ematico unico al mondo, fatto di creatività, di accoglienza e di resilienza, così come di intraprendenza. Le emergenze per loro sono pane quotidiano.

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