400 anni di una religione

Il Granth Sahib, libro sacro di 25 milioni di sikh, è senza dubbio una pubblicazione più unica che rara. Fa parte del ristretto novero delle Sacre Scritture cui si ispirano uomini e donne di ogni continente: ha tuttavia caratteristiche che lo distinguono profondamente dal Primo Testamento, dal Vangelo e dal Corano, libri tradizionalmente portatori di una verità rivelata, ma anche dai testi sacri dell’induismo classico (i Veda, le Upanishad, il Gita), nati in modo spesso mitico nel cuore dell’India, dove pure il sikhismo ha visto la luce. Infatti, e questo è sorprendente, il Granth (libro in sanscrito) non vanta nessuna origine divina, e nessuno ha mai affermato di averlo scritto sotto ispirazione dall’alto. È semplicemente una raccolta di 5.894 poesie o detti, non tutti scritti da Guru Nanak, il fondatore della religione sikh, ma anche da altri saggi indù o mussulmani. Sono composizioni poetiche, che riportano al periodo del bhakti, momento fondamentale della fede in India: la parola significa devozione, ed indica un fenomeno trasversale che ha unificato l’induismo e l’Islam, allontanandosi dal ritualismo esasperato che entrambe le religioni avevano raggiunto alla fine del primo millennio. Da parte indù il fenomeno bhakti, religioso e soprattutto letterario, ha messo in evidenza una fede monoteistica sullo sfondo della miriade di divinità del pantheon indù. Il fenomeno bhakti si unì a quello del sufismo, ed entrambi esercitarono una influenza decisiva sul libro sacro sikh. I versi del Granth Sanhib risuonano di cadenze e di immagini che ri- chiamano il Cantico dei Cantici: aiutano l’anima del fedele a trovare l’unione con Dio oltre le liturgie, nella vita quotidiana, nella natura, tra gli uomini del proprio tempo, nel proprio cuore. Sono pagine in cui l’amore trionfa sul rito e spiega il rapporto della creatura con il creatore. Da dove deriva la grande importanza di questo libro? Per capirlo dobbiamo rifarci alla storia del sikhismo, che non è nato come religione, ma lo è diventato per sopravvivere all’attacco dei Moghul di Delhi. Guru Nanak infatti aveva annunciato: Non esiste né indù né musulmano . In altre parole, abbiamo un unico padre e siamo tutti fratelli. La cosa parrebbe ovvia, ma non lo è mai stata nelle varie epoche storiche e a tutte le latitudini dove il genere umano si è trovato a vivere nel corso dei millenni. Nell’India del XXV secolo, caratterizzata da scontri cruenti fra Islam e induismo, e da un processo progressivo di sclerotizzazione di entrambe in ritualismi esasperati, in un contesto sociale diviso in caste, Guru Nanak riuscì con la sua vita e la sua predicazione, a compiere un’impresa quasi impossibile: unificare e rappacificare seguaci di entrambe le religioni e formare un popolo dove tutti avevano una profonda coscienza di uguaglianza sociale, oltre che di assoluta parità fra uomo e donna. I sikh erano semplicemente i suoi seguaci. Alla sua morte il profeta della fratellanza nominò un figlio a succedergli, e questi a sua volta ripeté la successione fino al decimo guru, Gobind Singh, che morì nel 1708, quasi 200 anni dopo Nanak. Intanto, a partire dal primo, e con il contributo degli altri guru, si era formato il Granth. Nel settembre del 1604, Arjan Dev, il guru che dirigeva la comunità, decise di introdurre l’Adi Granth, la prima copia del testo, nel Tempio d’oro di Amritsar, allora appena terminato, che sarebbe diventato il luogo sacro per eccellenza della nuova religione. Ma solo nel secolo successivo si arrivò al momento che diede al libro sacro il valore che oggi riveste. Fu proprio Gobind Singh a renderlo quasi persona, quando, in punto di morte, decise di non nominare più un uomo che assicurasse la guida e la direzione spirituale della comunità sikh. Lasciò piuttosto un guru che potesse durare per i secoli a venire: il Granth Sahib, appunto. Da quel momento il libro ispira, come amico, filosofo e guida, la fede di 25 milioni di uomini e donne. Rimane garante della vera religione sikh nelle diatribe religiose e sociali all’interno della comunità. In ogni gurudwara se ne trova una copia; ed ogni testo, ancora oggi, dovunque nel mondo, ha esattamente lo stesso numero di pagine, 1.430. Viene onorato con grande rispetto, ma senza mettere in dubbio il monoteismo che per i sikh resta inconfutabile. Ogni giorno viene esposto, prima dell’alba, con una cerimonia semplice ma significativa. Si susseguono poi diversi sikh a leggerne le pagine con un canto che riempie l’aria di sacro e aiuta al rapporto col divino. La sera il Granth viene ritirato. L’Adi Granth, strano ma vero, non si trova più nel Tempio d’oro. Da vari secoli è proprietà di una famiglia di Kartarpur, cittadina della rigogliosa pianura del Punjab indiano. Intrighi e storie di gelosie lo hanno sottratto alla fede universale sikh. Resta il fatto che il primo settembre la comunità sikh ha festeggiato l’avvenimento nel modo gioioso ed esuberante tipico della zona del Punjab. L’ultima settimana di agosto, il Tempio d’oro è stato così invaso da fedeli provenienti da tutto il mondo. I sikh hanno infatti grosse colonie in Usa, ma soprattutto in Inghilterra, dove sono 500 mila, ed in Canada, dove arrivano a 300 mila. Ma si trovano anche in Africa, dove in Kenya controllano il commercio delle auto, ed in Thailandia dove possiedono la maggior parte dei negozi di sartoria e tessuti. Una comunità viva e gioiosa, profondamente laica nel suo approccio religioso. Non esistono infatti sacerdo- citi, e nei vari templi i servizi vengono svolti da volontari. Dopo le terribili fasi degli anni Ottanta, quando Indira Gandhi ordinò all’esercito indiano l’assalto del Tempio d’oro diventato covo di terroristi, e la successiva uccisione del leader da parte proprio di guardie sikh, cui fece seguito una vera carneficina, la comunità gode oggi di un periodo di grande prosperità. Il Punjab, lo stato a più alta concentrazione sikh, è infatti la regione indiana con il reddito pro-capite più alto. E l’attuale primo ministro, Manmohan Singh, è sikh. Il primo settembre, fra la folla interminabile che è passata nel Tempio d’Oro, c’erano molti personaggi di spicco, tra cui il Dalai Lama, col capo coperto, come è chiesto a chiunque entra in un gurudwara, che ha dichiarato: Mi inchino al cospetto di questo libro che da 400 anni diffonde il messaggio della pace e dell’amore. Gli ha fatto eco il capo supremo della comunità sikh: La religione ha un messaggio speciale per il mondo intero – ha detto Jogindher Singh Vedanti – è un messaggio che dice: pace, amore e fratellanza. Siamo tutti membri di una grande famiglia

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