A 40 anni dall’omicidio di Walter Tobagi

È importante tornare a riflettere su quanto la vita, seppur breve (morì a 33 anni), di questo impavido giornalista ha testimoniato, soprattutto per i più giovani che non lo conoscono. La sua lotta all’ideologia non conosceva compromessi politici e questa libertà intellettuale faceva paura agli estremisti; faceva paura a Marco Barbone, leader della Brigata XXVIII Marzo, che, insieme a Mario Marano, lo uccise materialmente
Foto LaPresse - Mourad Balti Touati

A servizio della verità

Da La Zanzara, giornale del Liceo Parini di Milano, al Corriere della Sera, passando per l’Avanti! e Avvenire, sempre alla ricerca della verità nella certezza che quella del giornalista è una missione al servizio della democrazia. Questa fu la profonda convinzione di Walter Tobagi, giornalista ucciso il 28 maggio 1980 da un attentato terroristico del gruppo milanese di estrema sinistra Brigata XXVIII Marzo. A 40 anni dall’infame omicidio, è importante tornare a riflettere su quanto la vita, seppur breve (morì a 33 anni), di questo impavido giornalista ha testimoniato, soprattutto per i più giovani che non lo conoscono.

Di origini umbre, Tobagi visse gran parte della sua vita nel milanese, dove si trasferì da bambino. Entrò molto giovane, a 21 anni, all’Avanti! dove rimase pochi mesi per passare, successivamente, ad Avvenire. L’allora direttore del quotidiano cattolico, Leonardo Valente, lo ricorda così: «Preparava gli articoli con la stessa diligenza con cui al liceo faceva le versioni di latino e greco e all’università si dedicava alle ricerche storiche: una montagna di appunti, decine e decine di telefonate di controllo, consultazione di leggi, regolamenti, enciclopedie. […] Ma quando finalmente si metteva alla macchina da scrivere si poteva esser certi che dal rullo sarebbero uscite due cartelle di oro colato. […] Il suo solo problema era di arrivare alla verità, a qualunque costo».

Accanto al profondo senso del suo mestiere – pubblicare notizie, diceva, è il primo modo di fare cultura – a una non comune conoscenza della storia contemporanea italiana – che lo portò a insegnare all’Università statale di Milano – e alla straordinaria capacità di scrittura – che gli permetteva di muoversi tra gli argomenti più disparati – Tobagi sapeva testimoniare, senza troppe parole, una fede sincera e autentica. «Tobagi era cattolico, credente, praticante – ha sottolineato Giuseppe Baiocchi, suo compagno di studi e al Corriere, ad un convegno del 2006 tenutosi a Milano –. La fede per lui non era un accessorio, ma uno sprone ad avere nella professione un po’ più di rigore su se stessi, e un po’ meno abitudine alla propaganda e all’ideologia». Dopo tre anni ad Avvenire, e dopo l’esperienza al Corriere d’Informazione passò, nel 1972, a soli 25 anni, al Corriere della Sera.

Foto LaPresse - Mourad Balti Touati - Milano, la commemorazione di Walter Tobagi nella sede del Corriere della Sera in via Solferino Nella foto: la commemorazione in via Solferino
Foto LaPresse – Mourad Balti Touati – Milano,
la commemorazione di Walter Tobagi nella sede del Corriere della Sera.

Un giornalista che crede nella verità, è anche un giornalista che crede nella funzione della verità come strumento che crea libertà. Con questa chiara visione dell’identità profonda del giornalista, Tobagi divenne uno dei professionisti della carta stampata più autorevoli del panorama nazionale. Seppe essere un fine ed acuto osservatore del movimento studentesco – a cui dedicò la sua prima inchiesta su Avvenire e il libro Storia del movimento studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia – e del mondo del sindacato – alla cui storia lavorò con la tesi di laurea. Nell’autunno del 1978, a pochi mesi di distanza dall’omicidio di Aldo Moro che tanto profondamente lo aveva ferito, conquistò la maggioranza nel direttivo del sindacato dei giornalisti e fu eletto presidente della sezione lombarda. Non fu, tuttavia, un cammino semplice per uno che, come lui, non era disponibile, per amore di verità, a compromessi con gli estremismi ed era capace di aprirsi anche a posizioni politiche differenti dalla sua. L’elezione al vertice del sindacato, infatti, avvenne attraverso la scissione dai delegati socialisti di Rinnovamento e la fondazione di una nuova corrente, quella di Stampa democratica, grazie anche ai voti dell’area più vicina alla destra. La sua lotta all’ideologia non conosceva compromessi politici, toni aggressivi o semplificazioni strumentali; riguardava gli estremismi di destra – celebre un suo editoriale del 18 marzo 1971 su Avvenire in cui denunciava il riemergere dall’ombra dei manganellatori neri, con tanto di nomi e cognomi, da Caradonna a Valerio Junio Borghese – e quelli di sinistra – ancora più celebre il suo ultimo articolo nel Corriere della sera sui brigatisti, datato 20 aprile 1980, che affermava, dei terroristi rossi, non sono samurai invincibili. Tutto questo perché era convinto che «la democrazia si costruisce praticando ogni giorno la coerenza e la tolleranza, nelle parole e nei comportamenti» e che fosse pericoloso considerare un giornale democratico solo se scrive cose che si condividono.

Come spesso accade agli uomini intelligenti capaci di guardare oltre le banali contrapposizioni, non fu amato da chi voleva far precipitare la società civile nello scontro. Nel comunicato di rivendicazione dell’omicidio, da parte dei terroristi, si leggono i motivi della sua uccisione: «Era un dirigente capace di ricomporre le grosse contraddizioni politiche esistenti fra le varie correnti». Questa sua capacità di disinnescare le lotte, tipica di chi è libero intellettualmente, faceva paura agli estremisti; faceva paura a Marco Barbone, leader della Brigata XXVIII Marzo, che, insieme a Mario Marano, lo uccise materialmente e che, siccome pentito e collaboratore di giustizia, fece 8 anni e 9 mesi di carcere.

Così come faceva paura la sua lucida capacità di analisi che lo portò, ad esempio, a lavorare nel sindacato di Stampa democratica per affermare l’importanza della libertà di stampa contro ogni interesse di lobby finanziarie. Un lavoro che, racconta Renzo Magosso, collega di Tobagi a Stampa democratica, lo rese fastidioso agli occhi dei gruppi di potere che volevano mettere le mani sul Corriere della Sera, tra cui quello del Banco Ambrosiano. Lo stesso Magosso nel giugno 2004 pubblicò su Gente un’intervista all’ex brigadiere dei Carabinieri Dario Covo in cui quest’ultimo dichiarava di aver avvertito i suoi superiori, sei mesi prima dell’omicidio, del concreto rischio di un attentato ai danni di Tobagi da parte del gruppo terrorista. Magosso fu condannato nel 2007 dal Tribunale di Monza ad una pena pecuniaria (insieme all’allora direttore del giornale Umberto Brindiani), ma recentemente, il 16 gennaio 2020, la Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo ha ritenuto tale sentenza contrastante con il diritto di libertà di espressione.

A quarant’anni dal suo omicidio l’eredità di Tobagi continua ad essere un insegnamento prezioso per ogni cittadino. Fu capace di mettersi a servizio della verità senza interesse né clamore ma per professione e senso del dovere; perché, come scrisse da giovane liceale ne La Zanzara, se chi ha la possibilità non lo fa, chi mai si preoccuperà di formarsi una coscienza civica?

 

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