Il mio ultimo incontro con Atenagora

A 60 anni dallo storico abbraccio tra Paolo VI e il patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora I, avvenuto a Gerusalemme il 5 gennaio 1964 – un evento che ha dato inizio ad una stagione inedita di rapporti tra due Chiese che oramai si vedevano sorelle – riproponiamo l’intervista a Chiara Lubich apparsa su Città Nuova n. 14 del 1972, subito dopo la morte del patriarca col quale la fondatrice dei Focolari aveva avuto frequenti e significativi incontri

Roma, 7 luglio

Sappiamo che lei conosceva assai bene il patriarca Atenagora, che aveva avuto occasione di frequenti incontri con lui, di cui uno recente, nell’aprile scorso. Questa mattina il patriarca Atenagora è morto. Quale è stata la sua prima reazione alla notizia?

«Quel che sto per dire potrà forse stupire qualcuno; ma la mia prima reazione è stata di grande felicità. L’impressione che ho provato è stata che quanto gli uomini non sono riusciti a dargli, per le condizioni storiche, perché 1’unità fra i cristiani non è ancora matura, abbia voluto darglielo Dio direttamente: che Dio l’abbia premiato portandolo dritto in Paradiso. Questo è stato il primo pensiero: un pensiero mio personale, che forse altri non condividono, ritenendo magari che egli avrebbe potuto fare ancora tanto. Ma la mia convinzione è che egli ha tentato il tentabile con una pazienza infinita e una fede illimitata, e che nel suo cuore egli aveva già realizzato l’unità fra Chiesa ortodossa e Chiesa cattolica, anche se circostanze non volute da nessuno sembravano precludere la possibilità di proseguire questo cammino fino alla sua conclusione. Un cammino segnato da tappe decisive: il famoso abbraccio storico a Gerusalemme, l’abolizione degli anatemi reciproci fra le due Chiese, l’incontro con Paolo VI a Istanbul, la visita a Roma con la liturgia compiuta insieme col papa nella basilica vaticana. E poi quel suo lavoro di convincimento con tutti coloro che passavano al Fanar – la sede del patriarcato a Istanbul –, con i responsabili delle Chiese ortodosse e nei riguardi dei teologi, nei rapporti frequenti col Segretariato per l’unità dei cristiani – sia ai tempi di card. Bea, sia più tardi, col card. Willebrands –, fino all’episodio recente della consegna al papa, a suo nome, da parte del metropolita Melitone, del Tomos Agapis, il libro che riassume tutto il lavoro compiuto verso l’unità.

«A mio avviso tutto ciò che lo Spirito Santo gli ha suggerito, in coscienza egli l’ha fatto. E Dio è intervenuto, come a dirgli: “Ti do il premio delle tue fatiche”. Questa la prima impressione che veniva dal fondo dell’anima. Subito dopo, naturalmente, è seguito il ricordo vivissimo, toccante, degli incontri avuti, della sua carità personale delicatissima, della ricchezza umana e spirituale di questa figura eccezionale; è seguito il dolore intimo di questo distacco, del fatto che egli non è più tra noi…».

Sono passati solo due mesi dall’ultimo incontro che lei ha avuto con il patriarca. Che cosa in particolare le è rimasto impresso del dialogo con questa grande figura, che era alle soglie dell’eternità?

«Una volta di più sono venute in luce, in quella sua ricca personalità, le idee-chiave che hanno sempre formato il sottofondo di ogni suo discorso e atteggiamento di fronte a chiunque. Esse erano: l’idea chiara che tutto nel mondo – cristiano e non cristiano – urge verso l’unità. Di qui la necessità da lui sentita come impellente di ricomporre, nell’ambito cristiano, l’unità col papa di Roma. Era uno dei motivi dominanti anche nei colloqui precedenti che ebbi con lui in questi anni, fin dal 1967. Ricordo come egli insisteva nel dire la sua stima e il suo amore per Paolo VI, che amava di un amore unico e crescente. Credo di poter dire che forse da pochi Paolo VI sia stato compreso e seguito come da Atenagora. “Non è per adularlo – mi disse una volta – che lo chiamo Paolo II. È veramente il nuovo apostolo, la nuova speranza, la nuova certezza delle cose che verranno”. “Per me – mi disse in altra occasione – dopo Dio, c’e mio fratello Paolo II. Sento con lui una inesprimibile unità di pensiero e di cuore”.

«In questa ultima occasione tali sentimenti sono venuti ancora più fortemente in risalto. Ecco la prima cosa che mi ha chiesto: “Come sta sua santità il grande papa di Roma, glorioso?”. Un linguaggio che nella sua bocca non sonava affatto retorico: al contrario, c’era sotto tutta una carica di calore, di affetto, tipica-mente orientale. “Egli deve condurci per questo cammino della unità”, ha insistito. E commentava: “Ho detto qualche tempo fa a 25 preti italiani, che devono essere a fianco di sua santità, di questo grande uomo, verso il quale sento un grande rispetto e affetto profondo”. E mi spiegava dove egli trovava consolazione nelle difficoltà della sua azione ecumenica: “Mi consolo pensando che io vivo a Roma in una piccolissima camera nel Vaticano: non mi occorre una grande stanza, me ne basta una piccola…”.

«Oserei dire che era tale questo suo amore per il papa, da far pensare a una unità speciale, quasi di ordine mistico con lui; tanto da uscire in espressioni come queste: “Sono stato a Bogotà col papa, sono stato a Bombay col papa, sono stato a Sydney col papa”: perché dove era il papa lui c’era: come se avesse una vita fisica localizzata nello spazio, ma già una vita spirituale fuori dello spazio, sempre accanto al papa. Se si potesse rendere con una immagine la sua figura, bisognerebbe dipingere il papa e la sua ombra, una ombra luminosa come uno splendido angelo: Atenagora. Atenagora fuso in uno col papa… Questa immagine esprimerebbe in certo modo la sua missione…».

Tuttavia qualche pubblicazione, fra cui il libro “Dialoghi con Atenagora”, ha riportato interviste, tempo fa, con cui egli esprimeva opinioni che non coincidevano in tutto con il pensiero di Paolo VI. Per esempio riguardo al celibato, al primato di Pietro…

«Per fare intendere quale fosse il vero senso del suo pensiero su questi argomenti, vorrei riportare quanto mi disse in una delle udienze che mi concesse, nel 1970: “Lo ripeto, io sono col papa di Roma, come nel controllo delle nascite, così nel celibato sacerdotale. Non può fare diversamente… Sono con lui per tutto quello che dice, per tutto quello che pubblica, per tutto quello che decide. Ha sulle sue spalle la tradizione e la storia di venti secoli. Come potrebbe scaricarsi di venti secoli? Per l’avvenire, chi sa…, noi non sappiamo; ma per il presente egli non può fare in modo diverso. Io ammiro il suo coraggio! Lo ammiro per la sua stabilità: come una colonna. San Pietro, la Chiesa, aveva bisogno di un’altra colonna e questa è Paolo II. Ora ha problemi ‘domestici’, della Chiesa cattolica… ma una volta sistemati quelli, penserà a noi: perché noi seguiamo sua santità, che esprime il pensiero e la volontà di tutto il cristianesimo…”.

«Anche a proposito delle voci corse in ambienti cattolici, di eventuali dimissioni di Paolo VI, Atenagora si è espresso con me, nell’aprile scorso, con parole assai esplicite: “Ogni tanto i giornali pubblicano che sua santità darà le dimissioni. Io non lo credo. Non solamente la Chiesa, ma l’umanità ha bisogno di lui. Questo è il mio pensiero: tutti noi abbiamo bisogno di questa grande personalità, nostra consolazione, nostra speranza di giorni migliori. L’ho detto tante volte, che non dovrebbe permettere queste pubblicazioni. È ancora giovane… Il suo posto è là per tutta la vita. Perché noi apparteniamo alla Chiesa, non a noi stessi. La mia preghiera: che egli resti sul suo trono, che lo rende celebre sempre: sta bene sul trono…”».

Qual era, secondo lei, la caratteristica più saliente della personalità spirituale del patriarca?

«Se dovessi definirlo, direi di lui che è la personificazione della volontà di Dio di questo secolo. Succede, nella storia del cristianesimo, che Dio faccia sentire in un cuore la sua volontà per quell’epoca. E poi da quel cuore essa viene irradiata sull’umanità. Ebbene, nel cuore, nell’anima di Atenagora respirava amore. Egli era la personificazione dell’amore… Certo, queste sono cose inesprimibili, che si colgono solo a contatto diretto con una persona…

«E non era solo la personificazione dell’amore in senso spirituale, ma dell’amore concreto e personale per ogni creatura. Era straordinario e semplice a un tempo il modo con cui lo faceva sentire. Veramente sotto questo aspetto non ho mai trovato nessuno come lui. Nel muoversi, nell’agire, nel parlare non si comportava come uno che vuol fare a un certo momento un atto di carità, un regalo, no! Nei colloqui, fin dal principio veniva in luce quel fondo di carità continua; e, mentre si parlava, magari interrompeva un discorso che gli stava particolarmente a cuore, per porgere qualcosa, un caffè, o lo zucchero; ma con una solennità, una ineffabile gentilezza, per cui non sentivi differenza fra argomenti importanti e piccoli atti di cortesia: tutto in lui era questa carità. Prima delle questioni da trattare, c’era per lui l’amore verso 1’altro. Lo manifestava in ogni sfumatura. Quando poi si partiva ci caricava di doni. Ho ancora una scatola di dolci che mi ha mandato recentemente; e poi profumi per mia madre, ricordi… Ultimamente, quando andammo, era giorno di astinenza per gli ortodossi: e nel timore che a noi mancasse qualcosa, ci fece arrivare in tavola una scatoletta misteriosa: era caviale, perché alla nostra mensa non mancasse nulla ugualmente e l’ospitalità fosse completa. E non si prendeva cura solo delle nostre persone; ma poiché venivo da Roma mi dava spesso qualcosa da portare ad altri… L’ultima volta mi diede dei dolci da far pervenire al papa, prima di tutti, e poi a diverse personalità del mondo cattolico che aveva conosciute e a quelle, in particolare, del Segretariato per l’unione. Perché lui amava ognuno così.

«Un altro aspetto di questo suo amore: sono note le difficoltà di vario genere, le incomprensioni, gli ostacoli esterni che ha trovato nel portare avanti la sua missione. Per lui erano tutte occasioni per parlare bene di coloro che lo ostacolavano: e lo faceva in maniera che è al di la di ogni immaginazione. Non ho mai visto una creatura simile: veramente egli sta bene solo in Paradiso! Ora che non è più fra noi, mi ritorna con insistenza questa parola: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”. E questa frase sempre mi ritorna nell’anima, man mano che passano le ore. Questa, oserei dire, è la sua “Parola di Vita”…

«E poi un’altra cosa vorrei aggiungere: che il contatto con lui ha fatto aumentare dentro di me l’amore per la Madonna: egli era di casa con la Madonna… Nella parete della chiesa ortodossa di fronte alla sua abitazione vi era un’icona di Maria: m’ha confidato che a notte tarda andava ad accendervi davanti due candele: una per sé e una per il papa: “Perché se è una madre, non può avere i figli divisi”».

Atenagora si era posto una meta precisa come scopo della sua vita: arrivare, come egli diceva, “all’unico Calice” fra le due Chiese sorelle, quella di Roma e quella ortodossa. Molti hanno voluto vedere nel documento del Segretariato per l’unione, uscito proprio il giorno della morte del patriarca, che apre a tutti i battezzati di qualunque confessione cristiana la possibilità di ricevere la comunione nelle chiese cattoliche, quasi una prima realizzazione di questo suo sogno. Nei colloqui con lei avuti, Atenagora ha parlato di queste sue speranze?

«Era uno degli argomenti più insistenti. Stava all’apice dei suoi pensieri. Mi diceva recentemente: “Io vivo molto profondamente quest’epoca. È una dimostrazione della bontà di Dio. Non posso comprendere come ci siamo arrivati, dopo nove secoli di vita separata. Mi domando come mai Dio ci ha dato questa gioia, questa speranza…”.

«Già quando la Chiesa russa, qualche anno fa, prese una decisione importante “per l’intercomunione con la Chiesa cattolica”, permettendo che i cattolici ricevessero l’eucaristia nelle chiese ortodosse russe, egli mi disse: “Sono stato contento di quanto hanno fatto”. Ogni avvenimento positivo in questo senso era per lui un nuovo motivo di speranza che si attuasse il suo struggente desiderio: la concelebrazione in San Pietro col papa. È un desiderio comune, l’unico Calice”, insisteva riferendosi alle richieste dei giovani e dei cristiani in genere. E aggiunse, l’ultima volta: “Sarebbe per me un giorno di Paradiso andare di nuovo a Roma e incontrarmi con il papa e concludere con questo avvenimento”. E spiegava: “Sì, noi lavoriamo e domandiamo al buon Dio di aiutarci per questi passi. I teologi non sono capaci d’incontrarsi e di risolvere le questioni, perché non ci sono questioni importanti da discutere… È triste discutere teologicamente sulle cose che appartengono a ogni Chiesa come tesoro proprio”. Per esempio – osservava – “non possiamo dire a sua santità di abbandonare l’infallibilità, il primato. Tutto questo appartiene a lui, è una ricchezza della Chiesa; e anche noi, nelle nostre Chiese, abbiamo qualcosa di particolare…”.

«E ancora, a proposito del papa: “Il papa è sempre il centro di tutte le nostre azioni. Egli ha nelle sue mani la vita del Vangelo, della Storia, il nostro presente, il nostro futuro. L’ho detto tante volte…”.

«E poi mi parlava della pace: “Siccome ho visto tanto odio, per questo amo Roma. Sono i governanti che fanno le guerre, non il popolo. Il popolo non le vuole. Io non posso capire: uccidere l’altro. Siamo fratelli. E per questo il grande papa Paolo VI sente sempre il bisogno di predicare la pace; e ha ragione. E la pace verrà. Poiché abbiamo bisogno di un’altra situazione. È questo che il papa ha predicato quando è andato due anni fa in Estremo Oriente: ‘Sono venuto qui per portarvi una parola: l’amore’. Dobbiamo portare l’amore, dobbiamo amarci per avere la giustizia e la pace… Si è così contenti di dire all’altro: quanto ti voglio bene”.

«Salutandoci ci ha detto: “Non penso mai al momento della partenza. Questa è la vita…; ho ascoltato un canto francese durante la prima guerra mondiale: molti andavano all’ospedale per visitare i feriti e cantavano: ‘Questa è la vita: un po’ di gioia… un po’ di speranza… un po’ di tristezza…’”».

Infine, una domanda particolare: lei è andata ad Istanbul, anche l’ultima volta, per informare il patriarca del lavoro ecumenico svolto dal Movimento dei focolari. Vuol dirci come egli vedeva la funzione del movimento in questa opera di unificazione?

«C’è stata fin da principio una convergenza di pensieri, di sentimenti e di metodi: perché Atenagora nutriva fiducia soprattutto nel “dialogo dell’amore”, più ancora che in quello teologico e vedeva nel movimento un modo di attuare questo “dialogo dell’amore”. Perciò ci mostrò fin da principio una commovente fiducia e un caldo amore: perché vedeva che il nostro ecumenismo era fatto di vita, di comunione di anime. Anzi, soleva definirsi sorridendo un “semplice membro” del movimento e diceva: “Tutti abbiamo bisogno di questo spirito”.

«Noi sentiamo che il dialogo con lui, anche come movimento, non è interrotto: che egli ci ha indicato una strada che occorre proseguire. E la prima cosa che ci è venuta alla mente – un pensiero immediato, comune – è stata d’intitolare a lui la nascente cittadella ecumenica di vita, che insieme con i fratelli evangelici tedeschi stiamo realizzando ad Ottmaring, in Germania: noi la chiameremo così: “Cittadella Patriarca Atenagora”. In essa infatti vogliamo attuare il suo programma fatto di amore per contribuire anche noi, dalla base, a realizzare il suo sogno di una piena unità».

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