Duello verbale tra due fratelli ne “Il grande Inquisitore”

Un aspirante scrittore e un aspirante monaco. Vogliono "salvarsi" a vicenda, ciascuno portando  l'altro alla propria visione della vita. Chi vincerà? Il confronto nella messinscena di Marinella Anaclerio della Compagnia del Sole. Al Teatro Tordinona di Roma

Ci sono spettacoli, rari, per i quali non si esita di consigliare da non perdere. Il grande Inquisitore di Dostoevskij, messo in scena da Marinella Anaclerio, e con due attori di razza, come Flavio Albanese e Tony Marzolla, è uno di questi. C’è compiutezza di toni, di posture, di presenza e tensione scenica, di sguardi e di silenzi fuori dal tempo, di afflato emotivo e di partecipe immedesimazione in questa encomiabile coppia di attori alle prese con un faccia a faccia esistenziale che ci incolla alla poltrona nel seguire il loro dibattito frontale, lo sdoppiamento delle menti, la diatriba di anime alla ricerca della verità – quella della fede – presente in quel capolavoro assoluto che è Il grande Inquisitore di Dostoevskij. E che affondo di parole che arrivano al cuore, che vortici di senso nel loro rimbalzo da una voce all’altra, nel dipanarsi e riconsegnarsi al mistero.

Sembra che il testo sia loro. Nell’asciuttezza di un ispirato adattamento elaborato dalla regista Marinella Anaclerio per la pugliese Compagnia del Sole, la parabola dostoevskijana contenuta nei Fratelli Karamazov – un racconto nel racconto, cardine della filosofia dello scrittore, del rapporto tra bene, male e libero arbitrio –, buca la quarta parete del teatro per raggiungerci leggera e potente. E scuoterci. E depositarsi in noi, non senza prima averci trasmesso quel subbuglio interiore che ha scosso le erranti anime inquiete di Ivan e di Alësa. Tormentato il primo, puro il secondo. Con una riscrittura essenziale, acuta, attraente, e con un lavoro di cesello sui personaggi, la sapiente mano registica ritorna a strutturare il gran testo – ultima opera e testamento spirituale dello scrittore russo – come una riflessione ogni volta aperta a nuove prospettive di visione e comprensione. Da far risuonare e risplendere. È tutta lì la forza della messinscena, racchiusa ed espressa nel rapporto d’amore tra i due fratelli, nei loro sguardi teneri, penetranti e pacati, nell’immobilità vibrante dell’uno e nella vivacità salda dell’altro, in quel bacio finale che brucia nel cuore e in quell’abbraccio risolutivo che segna l’addio.

La scarna, semplice scenografia (di Francesco Arrivo) composta da un tavolo, uno sgabello e una sedia davanti ad una parete reticolata con fogli sparsi intrappolati in essa – il groviglio della ragione? –, colloca i due fratelli in una piccola taverna. Alla gioia dell’incontro segue il confronto tra le loro due visioni della vita. Ivan espone al fratello le ragioni del suo atteggiamento di anarchico rifiuto dell’assurdità della vita; Alësa, aspirante monaco, gli ricorda che Dio può rendere ragione di quella apparente assurdità avendo Egli fornito agli uomini una risposta per mezzo di Suo figlio Gesù Cristo. Ivan allora gli racconta il contenuto di un testo letterario che pensa di scrivere: La leggenda del Grande Inquisitore. Con lieve metamorfosi gestuale e spostamenti nel piccolo spazio illuminato da un efficace disegno luci (di Cristian Allegrini), Ivan Karamazov diventa il Grande Inquisitore, e Alësa “Aleksej” Karamazov, Cristo, dando avvio alla storia a tutti nota ambientata nella Siviglia nel 1500 dove Gesù torna sulla terra per visitare il suo popolo. Avendo assistito in diretta da lontano ad alcuni Suoi miracoli sulla piazza della cattedrale, il Grande Inquisitore lo fa subito rinchiudere in prigione. Nella notte, solo, si reca a visitarlo in cella. Qui si svolge il bellissimo monologo, in cui egli rimprovera a Gesù l’assurdità di un messaggio troppo sublime per la stragrande maggioranza degli uomini, impossibilitati a seguirlo per la loro intrinseca debolezza. L’accusa: aver risvegliato nell’uomo la coscienza del libero arbitrio. Ecco posto il grande tema della libertà, cuore dell’essere umano, nel racconto che ancora oggi, e forse più che mai nei nostri tempi bui, parla di questioni che gravano su di noi, uomini della crisi. Ci pone domande incalzanti, tante e irrisolte, ma salutari anche solo perché suscitate.

Nell’abilità della regia di coniugare linguaggio scenico, testo e significato, il pubblico finisce per sentirsi chiamato in causa. Difficile non essere coinvolti direttamente dalle parole tanto intense con cui i due attori, coesi, partecipi e coerenti nel ruolo, con gesti misurati ed energici, sanno scavare in loro e in noi. Le ultime sono di Alësa congedandosi davanti al pubblico: «“Ora Io vado…vi starete chiedendo “sì, ma da dove vieni e dove vai?” Già… Da dove vengo non ci sono più, dove sono, lo vedete tutti, dove andrò… solo Dio lo sa.  Ma vi do la mia parola che non dimenticherò nessuno di voi; ciascun viso che in questo momento mi sta guardando, lo ricorderò, come parte di me, perché infondo io, voi, noi siamo i Karamazov. Dimitri diceva “l’uomo è troppo vasto, io lo restringerei”! Io dico: l’uomo è un mistero, un mistero che bisogna risolvere… ed io continuerò a provarci, dovessi trascorrere tutta la vita, a cercare di risolverlo. E non mi si dica che sto perdendo tempo, io studio questo mistero perché voglio essere un uomo…».

Al Teatro Tordinona di Roma, dal 18 al 23 novembre.

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