Tornano i controlli di frontiera tra Italia e Slovenia

Il governo ha annunciati la sospensione degli accordi di Schengen per dieci giorni a partire da sabato 21 ottobre, in ragione del rischio infiltrazioni terroristiche tramite la rotta balcanica. I timori delle ripercussioni su un confine prima simbolo della guerra fredda, e ora dell'integrazione europea
In un valico rurale sul Carso, qualcuno ha provocatoriamente scritto "No borders", "Nessun confine", sul cartello che indica il confine di Stato. Foto Mauro Scrobogna /LaPresse

Si potrebbe credere che, in una terra in cui la maggior parte delle popolazione ricorda ancora (per motivi anagrafici) i tempi in cui per “andare in Jugo” [l’allora Jugoslavia, ndr] era ancora necessario esibire il passaporto (o addirittura la “propusnica”, il lasciapassare, che permetteva il passaggio anche ai valichi di seconda categoria), la notizia sia stata accolta senza troppo clamore: parliamo della sospensione della libera circolazione delle persone e delle merci, quella sancita dal Trattato di Schengen, tra Italia e Slovenia. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha affermato che questa «si è resa necessaria per l’aggravarsi della situazione in Medio Oriente, l’aumento dei flussi migratori lungo la rotta balcanica e soprattutto per questioni di sicurezza nazionale, e me ne assumo la piena responsabilità»; affermazione a cui ha fatto eco quella del presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, secondo cui questo provvedimento «risponde all’indifferibile urgenza di tutelare la sicurezza del nostro Paese alla luce della crescente tensione internazionale e del riverbero della crisi mediorientale sull’Europa».

Va ricordato, del resto, che secondo fonti ministeriali da questo confine sono entrate irregolarmente in Italia dall’inizio dell’anno 16 mila persone (con 80 “passeur” arrestati); con conseguente timore che, così come l’attentatore dell’ultimo atto terroristico a Bruxelles era passato da Lampedusa, altri foreign fighters delle reti jihadiste attive da anni nei Paesi dell’ex Jugoslavia possano passare da qui. E va altresì detto che anche altri Paesi dell’area Schengen (l’Austria, la Germania, la Francia, la Repubblica Ceca, la Polonia, la Slovacchia, la Svezia, la Danimarca e la Norvegia, e la stessa Slovenia) hanno ripristinato qualche forma di controllo ai confini; e che già negli anni scorsi (in particolare in epoca Covid, ma non solo) le pattuglie erano tornate in più occasioni agli ormai ex valichi di frontiera. I posti di blocco torneranno dunque a partire sa sabato 21 ottobre per un periodo di 10 giorni, prorogabili fino a sei mesi. Il fatto tuttavia che il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, abbia annunciato la sua presenza a Trieste per il 2 novembre per incontrare le autorità sia italiane che slovene fa pensare che il blocco verrà prorogato almeno fino ad allora.

Nulla di nuovo, dunque, si potrebbe dire. E però. E però nel 2023 è diverso, cosa che ha ben esemplificato il sindaco di Gorizia, Rodolfo Ziberna, in un suo comunicato della mattina di giovedì 19 ottobre. Pur riconoscendo la necessità del provvedimento, il primo cittadino riferisce che «Stamani ho inviato una lettera al ministro degli Interni Piantedosi per sottolineare le sofferenze e le difficoltà vissute sulla nostra frontiera quando, in epoca Covid, la Slovenia fece altrettanto […] Ho voluto rappresentare al ministro la nostra preoccupazione ed invitarlo a tener conto di come i territori di Gorizia e Nova Gorica non possono vedere interrotte le loro frequentazioni perché moltissimi sono coloro che vivono da una parte e lavorano dall’altra parte del confine. Inoltre l’approssimarsi della Capitale europea della cultura 2025 di Nova Gorica e Gorizia ha incentivato relazioni in tutti i settori tra cittadini, imprese, istituzioni». Personalmente mi piace peraltro ricordare come, in una discussione con lui sul tema, il sindaco mi avesse riferito che «io, nato prima dell’ingresso della Slovenia nel’Ue, se devo andare nella parte slovena della città dico ancora “vado in Slovenia” o addirittura mi scappa un “vado in Jugoslavia”; mia figlia, nata dopo, dice semplicemente dove va, senza specificare da che parte del confine». E se la caduta della frontiera è particolarmente evidente nella città che per la sua storia ne è diventata il simbolo, tutta la Regione ha ormai scambi stabili con l’area balcanica sia sul fronte economico che più latamente sociale: di qui dunque una certa apprensione su quelle che potrebbero essere le ripercussioni in tutto il Nordest – Confindustria Veneto Est ha infatti subito espresso timori di un vistoso calo delle esportazioni.

Al momento non sono state ancora del tutto definite le modalità in cui saranno espletati i controlli, per quanto il ministro dell’Interno Piantedosi e il suo omologo sloveno abbiano concordato sulla necessità di misure «proporzionate e amichevoli». Se appare sostanzialmente scontato che alle persone in entrata e in uscita dal territorio italiano verrà chiesto di fermarsi ed esibire i documenti, il senatore meloniano Roberto Menia, vicepresidente della Commissione Esteri, ha assicurato il «minor impatto possibile sulla circolazione transfrontaliera di merci e cittadini»: tenendo conto però dell’imponente mole di camion che ogni giorno attraversa il confine, in particolare nella zona di Trieste, ipotizzare controlli a tappeto su ogni trasporto senza paralizzare i flussi appare decisamente difficile. Così come sono in molti a chiedersi, dato che i migranti irregolari non transitano certo alla luce del sole ai valichi di frontiera, se e come verranno potenziati i controlli nelle zone al di fuori degli abitati e delle strade: se con i 300 agenti di rinforzo assegnati al Friuli Venezia Giulia sarà possibile garantire il presidio di tutti i valichi principali, non lo sarà per tutti quelli secondari e per tutti i passaggi su strade agricole o finanche su sentieri. In sostanza, se da un lato appare chiaro che la minaccia terroristica abbia fatto decidere per un giro di vite all’annosa questione dei transiti sulla rotta balcanica, dall’altro sia l’opposizione che diverse realtà della società civile dubitano che i controlli di polizia sul confine possano effettivamente servire allo scopo.

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